Il “peso” del Gusto nelle Strategie di Revenue dell’Hotel
La bella Italia, 301.340 kmq di superficie e 60.677.531 milioni di abitanti, ospita sul suo territorio 33.999 alberghi. Esclusi i B&B. Non tutti offrono il servizio ristorante… e in tempi di crisi, molti si chiedono se dovrebbero invece considerare l’elemento ristorazione, un “must” per raggiungere un budget soddisfacente.
Per molte strutture recettive la voce Food & Beverage è sinonimo di precarietà e rischio, benché l’industria dell’ospitalità includa con enfasi questa disciplina, e molti sono gli operatori più room-oriented che restaurant-oriented.
Perché allora preoccuparsi tanto nell’era in cui la diversificazione, sotto tutti i punti di vista, è importante?
Per il semplice fatto che la gran parte dei viaggiatori lo richiede, anzi, se lo aspetta (sono sempre loro che decidono il mercato anche quando il new-Marketing insegna diversamente). È indicativo come la percezione generale del cliente finale sulla qualità della sua esperienza in albergo sia strettamente – o prevalentemente – legata alla qualità dell’offerta ristorativa che vi trova.
La presenza o meno del ristorante in una struttura recettiva ha dunque un effetto incisivo sulla qualità finale dell’esperienza in albergo (sia che si tratti di business o di vacanza). L’esperienza è allora riconducibile allo stereotipo che all’estero hanno della nostra Nazione: “Italy is beautiful! It’s fashion, design, art, but the food… mmh, uncomparable!”. L’attenzione verso questo unexpressed-but-expected-need, deve essere sempre presente!
Dai commenti sui travel social network emerge un paradosso interessante: sembra che l’ospite d’albergo pretenda un servizio completo di ristorazione affinché il suo soggiorno possa definirsi degnamente tale, anche quando poi potrebbe accadere che nel commento si trovi l’affermazione “…ma non ho mai mangiato lì”. D’altro canto non è forse vero che l’accoglienza e l’ospitalità sono una colazione ricca e ben curata anche se alla fine l’ospite opterà per un caffè soltanto? Certo, ma se anche fosse, quel “solo caffè” deve essere “eccellente”.
Per gli operatori di settore, per chi volesse avventurarsi nel mondo dell’ospitalità ed avviare una propria attività, non v’è da nascondere che il dilemma possa sembrare grande. Al summit che si è tenuto a Londra la scorsa settimana (www.boutiquehotelsummit.com) questo è stato un argomento incisivo, che ha reso ancora più evidente le tendenze del segmento.
Se ad esempio si considera una struttura full-service hotel di 250 camere, la richiesta di servizi F&B è mediamente alta e costante rispetto ad una struttura che invece ha solo poche camere, come i boutique hotel, in cui la percentuale scende. È logico controbattere e affermare che occorre generare la domanda esterna. Ma come?
Semplice, come stanno facendo da un po’ di tempo a questa parte diverse catene e singole strutture: puntare su un “super cuoco”, un nome di richiamo, un celebrity Chef che faccia pubblicità e che aumenti le prenotazioni! In UK ad esempio, questa soluzione è stata adottata con successo dal gruppo Sanguine’s Hospitality, che vanta un giro di affari pari a 313 milioni di dollari di alberghi nel Regno Unito, e che si avvale dell’enfant terrible, lo Chef stellato Marco Pierre White, per non scordare lo stile e la fama di Gordon Ramsey, o di Jamie Oliver e via dicendo. Con molta probabilità il nome concorre a raddoppiare il revenue, ma se alla base della scelta non c’è una strategia ben definita, il rischio di naufragare è davvero alto.
Allora, non bisogna scordarsi che il Brand da solo non basta a vendere l’esperienza albergo, la chiave di svolta infatti rimane sempre la stessa: fare ciò che è meglio per la propria dimensione, location, realtà, filosofia e forza. Il che si potrebbe tradurre nell’aderire ad un franchising, come pure investire in uno spazio adeguato per ospitare uno Chef di alto livello, ma anche essere più coraggiosi e osare, dando libero sfogo ad un ristoratore o ad uno Chef giovane e promettente!
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