Turismo e rapporto Banca Impresa: un rapporto normalizzato per il futuro?
Mai come in questi ultimi tempi il rapporto Banca-Impresa è oltremodo conflittuale: dal 2008 ad oggi si può senz’altro affermare che i rapporti sono degenerati a causa della stranota crisi economica.
Obiettivo di questo lavoro non è tuttavia quello di soffermarsi sui motivi della crisi e, di conseguenza, sul motivo del deteriorarsi dei rapporti, quanto piuttosto quello di approfondire per quale ragione una finanza al servizio dell’industria può essere lo strumento di uscita da questa situazione in cui da troppo tempo versiamo.
Perchè la finanza ha sbagliato
Tuttavia, non si riuscirebbe a dare completezza ai concetti se non si approfondisse per grandi linee non esaustive il motivo per il quale la finanza ha sbagliato con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti:
• la finanza ha sbagliato perché non è stata al servizio dell’economia reale;
• la finanza ha sbagliato perché ha perseguito e conseguito risultati di breve termine;
• la finanza ha sbagliato perché è stata fenomenale ad iper regolamentarsi (Basilea ed i suoi derivati) ma incapace di dotarsi di codici etici;
• la finanza ha fallito perché è stata vittima “delle trimestrali“ e non della creazione di valore di lungo periodo;
• la finanza ha fallito perché ha erogato prestiti facili finalizzati non all’immobilizzo del capitale quanto piuttosto per finalità di cartolarizzazione più funzionali ai risultati di breve termine.
Chi scrive è convinto che un altro rapporto è possibile.
Un rapporto non vittima di bolle speculative, nè di managar “rapaci” ed “affamati di risultati di breve” dove la qualità dell’attivo bancario è commisurata alla capacità della banca di mantenerlo nel perimetro delle sue attività senza rapide operazioni di cartolarizzazione che hanno più il sapore di una fuga da un prodotto tossico…
In un rapporto normalizzato banca-impresa, la finanza è al servizio dell’impresa, al servizio del suo sviluppo, al servizio della crescita di valore.
E’ evidente che dopo il credit crunch il rapporto banca-impresa difficilmente potrà tornare quello di prima: ora sono due mondi che hanno separato le loro strade. Dal nuovo incontro di queste vi è l’uscita dalla crisi.
Cosa impedisce a queste strade di incontrarsi nuovamente?
Senza nessun tipo di presunzione, sono convinto che dalla risposta a questa domanda vi è uno dei metodi per iniziare ad uscire dalla crisi.
Innanzitutto, a monte vi è un problema di regolamentazione, che è ostativo ad una armonizzazione dei rapporti: Basilea 2 prima, ed ora – visto che ne sentivamo la mancanza – Basilea 3.
Chi scrive fu autore diversi anni fa, ed in tempi non sospetti, di una tesi di Laurea nel corso di “Economia e Gestione delle aziende turistiche” dal titolo “Forme di finanziamento dell’impresa alberghiera dal credito ordinario al merchant banking“, dove l’argomento Basilea, allora agli albori, venne sviscerato nella sua complessità e già da allora ne venivano evidenziate le criticità e le difficoltà operative.
E soprattutto, e questo era ed è l’aspetto più preoccupante, Basilea non permette di accompagnare le aziende nella risoluzione delle loro crisi, anzi.
Pertanto, facendomi portavoce di proposte concrete, evidenzio che intervenendo in maniera decisa sugli elementi di criticità dell’accordo di Basilea si liberino degli spazi che possano permettere il rifinanziamento delle aziende: senza intervenire su tale sistema di regolamento ogni azione è inefficace.
Il motivo è presto detto: la crisi ha segnato i bilanci delle aziende che di fatto non risultano più finanziabili poiché non rispondono ai criteri che le stesse banche debbono rispettare nell’erogazione del denaro.
E’ sorprendente quante sciocchezze vengono dette relativamente alla volontà delle banche di non voler finanziare le imprese senza che venga affrontato il vero problema che è quello sopra esposto.
Del resto, se pensiamo che la nostra classe politica avrebbe difficoltà ad identificare la nazione che ospita Basilea, è impensabile che possano comprendere l’aspetto normativo di un accordo bancario internazionale.
Qui viene introdotto un “tema caldo“: può la politica imporsi ad aziende private? Può pertanto essere invasiva nell’ambito del capitalismo?
In linea generale NO, i due aspetti devono necessariamente essere separati e compito di uno Stato di diritto è quello di normare. La crisi che stiamo vivendo ha però carattere di eccezionalità ed è pertanto convinzione di chi scrive che a questa domanda i tempi che stiamo vivendo ci permettono (ci impongono) di dire di SÌ.
Sì, perché se si chiede l’aiuto degli Stati per salvare l’attività è evidente che gli Stati debbano necessariamente imporre qualcosa per evitare che tutto ciò accada di nuovo.
Sì, perché l’interesse generale deve sempre prevalere sull’interesse particolare.
Quanto costa alla collettività il sistema che dovrebbe essere posto in atto in caso di salvataggio del sistema bancario di uno Stato europeo? Ha senso che la BCE inondi le banche di liquidità a tassi agevolati funzionali all’acquisto del debito degli Stati stessi?
Tutto ciò sembra un intreccio pericolosissimo in cui vittimà è lo stato sociale.
Quindi intervenire sull’accordo di Basilea è già un primo ed importante passo.
A mio avviso un’occasione già si è persa nel nostro Paese quando qualche anno fa, per far fronte ad una maggiore necessità di rafforzamento patrimoniale, si utilizzò lo strumento denominato “Tremonti Bond“, in cui beneficiari furono anche istituti che qualche decennio prima furono privatizzati (ovvero si passò da un controllo sostanzialmente pubblico ad un controllo privato).
Dirò una cosa forte: lo strumento dei Tremonti Bond doveva essere l’occasione per riportare il sistema all’interno di un’orbita di indirizzo pubblico ma non di influenza della politica, bensì dell’interesse comune.
Bisogna essere chiari: senza l’aiuto della BCE nel mercato dell’interbancario e senza strumenti statali di rafforzamento patrimoniale il sistema bancario italiano (e probabilmente europeo) sarebbe fallito.
Del resto stiamo parlando di perdite di valori anche del 60 % (dati relativi alle quotazioni di borsa) e dove i valori dell’attivo sono spesso in carico a valori lontanissimi da quelli attuarizzati.
In Europa la situazione non è migliore: alcuni governi sono dovuti entrare direttamente nel capitale delle banche per evitare un fallimento le cui conseguenze sarebbero state devastanti. In America, patria del capitalismo, addirittura lo Stato entra nel capitale di una casa automobilistica orientandone poi una vendita.
Sarebbe pertanto altamente qualunquista e superficiale bollare la mia tesi di controllo statale anche momentaneo del sistema bancario come frutto di un’ideologia statalista.
Se si è fautori del libero mercato, e per troppi pseudo capitalisti tale tesi è solo finalizzata ad un interesse personale, bisognerebbe allarmarsi non leggendo le proposte qui riportate quanto piuttosto quando si chiede aiuto allo Stato per evitare il fallimento.
Altrimenti, come nel caso dei Tremonti Bond o della liquidità della BCE, si stanno utilizzando denari pubblici per salvare interessi privati (vedi mega retribuzioni e privilegi degli affollatissimi consigli di amministrazione) e tutto ciò agli occhi dell’opinione pubblica non è credibile.
Si fanno tanti e troppi incontri a livello europeo che producono nulla di fatto: se lo Stato avesse il controllo del sistema del credito (giusto il tempo per normare regole condivise), sarebbe più semplice mettersi a livello europeo davanti ad un tavolo di trattativa per rendere le regole di BASILEA più confacenti ai tempi che stiamo vivendo. Sarebbe un primo ed importantissimo passo.
Il secondo intervento sarebbe di tipo culturale e, per ciò che riguarda il nostro Paese, ha problemi con radici lontane. Per comprenderlo basterebbe rispondere a questa domanda: chi controlla il sistema creditizio nazionale? Sostanzialmente due soggetti: le fondazioni bancarie e i fondi di investimento.
Le prime sono il frutto di processi di privatizzazione sbagliati degli anni ’90 ed i secondi perseguono da sempre risultati di breve periodo; tutto ciò comporta che il management bancario sia pressato nella sua attività giornaliera ad operazioni di breve periodo. Il tutto e subito insomma.
Capire le dinamiche che influenzano la nostra vita imprenditoriale e le scelte manageriali
Chi ha avuto la pazienza di leggere sin qui argomenti necessariamente non leggeri potrebbe a questo punto porsi una domanda: che cosa c’entra tutto ciò con la mia attività di imprenditore o manager turistico?
In una prima accezione infatti sembrano discorsi lontanissimi dalla gestione di una piccola impresa. In realtà non è così e comprenderli significa capire dinamiche che influenzano la nostra vita imprenditoriale e le nostre scelte manageriali.
Un esempio? In tempi di crisi vi siete domandati: perché le banche concedono più facilmente “scoperti di conto corrente“ piuttosto che mutui ipotecari mentre una corretta gestione consiglierebbe l’opposto?
Semplice: la prima forma di finanziamento porta risultati più veloci già dal successivo trimestre. Così quando l’imprenditore va in banca si vede offrire la forma del finanziamento di breve termine in maniera più rapida rispetto a quella di durata pluriennale.
Riflettendo quindi ecco spiegato come una bramosia di utili e profitti di breve termine si concretizza su un’offerta di credito che non sempre viene erogata nella forma più corretta e soprattutto più conveniente per le aziende.
Come si può intervenire su questo aspetto?
Su due fronti: cultura di impresa da parte dell’imprenditore o del manager e premiando di più i risultati di lungo termine rispetto a quelli di breve da parte del sistema bancario.
Il suggerimento di intervento fiscale in tale ambito va lasciato agli esperti; tuttavia il buon senso direbbe che andrebbero premiati con bonus manager e consiglieri che riescono a portare risultati non nel trimestre, ma nel decennio successivo. E’ questo il termine per giudicare un corretto investimento ed una corretta gestione.
Concludo dicendo che comprendere questi fenomeni fa comprendere meglio alcune dinamiche della stessa impresa, della sua vita e delle scelte che i decision maker debbono fare. Comprendere questi fenomeni può creare processi di sensibilizzazione verso tematiche che la maggior parte dell’opinione pubblica sente lontanissime ma le cui conseguenze, in realtà, sono vicinissime alla nostra quotidianità per i motivi sopra evidenziati.