Rob Art
Esperto
Se i moderatori me lo consentono, apro un nuovo post.
Non sono argomenti convenzionali e aderenti al turismo, ma pur di movimenti, spostamenti si tratta: gente che emigra, gente che evade, gente in cerca di nuove dimensioni in altre terre, gente stufa e curiosa con il suo carico di dolore, di passioni, speranze e humanitas. A pensarci bene, l'essenza stessa del viaggio.
Principierò con il racconto di uno dei miei migliori amici, Michele Celeste, che tanti anni fa si trasferì a Londra, ed ivi iniziò il suo percorso di scrittore.
LETTERA AL DIRETTORE
Michele Celeste
«Io non gliela faccio vincere! Never!», sbottò Domenico e la risolutezza gli scolpiva la faccia marmorea. Siro, che a giocare ci teneva sì, ma non tanto - lo faceva, infatti, più per far compagnia all’altro che per se stesso - annuì: «Ma veramente, you know, cosa possiamo fa’?». Erano più o meno quindici anni che stava a Londra e, sfortunato per non aver trovato una moglie italiana, si era messo con una irlandese con la quale, almeno dal punto di vista cattolico, si poteva capire. Ma per il fatto che lei non parlava l’italiano, lui era obbligato a parlare continuamente in inglese quando era a casa. Infatti aveva cominciato a perdere l’accento del Friuli e, sempre più spesso, gli capitava di mischiare parole inglesi all’italiano e parole italiane all’inglese. C’erano momenti in cui Domenico, sentendosi dire frasi col cinquanta per cento di tutte e due le lingue, non capiva quale lingua Siro cercasse di parlare. «Se non si può fare un partita a carte durante il tea-break che cazzo ce lo prendiamo a fare il tea-break...». «Il tea break è una tazza di tè. Fumarsi una sigaretta». «Ma che il tea-break è per rilassarsi! Relax!». «È proprio quello che ho appena detto. A cup of tea serve proprio per rilassarsi», ribatté Siro in un raro tentativo di far valere la sua opinione. Ma Domenico lo zittì subito, «E poi mica giochiamo d’azzardo... Ci giochiamo la tazza di plastica, di plastica di tè proprio come al paese ci si gioca l’espresso... È la tradizione, la tradizione che va a morire! Capisci, Siro?». «Yes, yes. I understand, Dom». «Chi lava e scopa questi tunnel?... Messi insieme più lunghi di quello della Manica!...E chi toglie la polvere qua?... Noi! Sempre noi! E come ringraziamento adesso ci tolgono pure il diritto di sederci sul panchetto per fami una scopa!». «I know, Dom. La colpa è tutta di Maggie Thatcher. Con tutto il danno che that woman ha fatto all’Union...». «Ma che sindacato e sindacato del cazzo! Che c’entrano i sindacati? Questo è un affronto, un affronto personale! A me! E anche a te! Come italiani! Come immigrati! E tu gliela vuoi far passare liscia al Manager?!». «No, I never said...». «lt’s no joke! Non è una da niente, Siro!». A Siro scopare e lavare il sotterraneo non è che gli piacesse tanto. Ma s’era abituato. In tanti anni - quindici - il corpo si era adattato alle specifiche richieste del suo lavoro e certo che era bello lavorare automaticamente, senza scervellarsi. L’alternativa sarebbe stata lavorare in un hotel o un ristorante a lavare piatti, e quella era veramente schiavitù. La paga era al disotto della minima sindacale ed eri sempre sotto gli occhi di tutti. E come lavapiatti tutti ti comandavano a destra e a sinistra: dai cuochi, ai camerieri, ai Manager. Qui, invece, se dovevi pisciare, lasciavi e andavi, senza dar conto a nessuno. E la paga era a livello nazionale. Domenico vide il Manager passare sul fondo del corridoio e gesticolò a Siro di darsi da fare con la "lavapavimento". La macchina ronzò in azione e subito cominciò a spruzzare fuori acqua, a strofinare e a risucchiare l’acqua sporca. Domenico alzò la voce al disopra del rumore, «Siro!» «Yeah» «Questa volta andiamo dritto dritto al vertice!» «Che vertice?» «Il Direttore!» «The Hospital Director?... E chi è?» «Ma ci sarà pure un direttore, no! Ebbene, gli spieghiamo la situazione! E vedrai come questa storia finisce! Il Manager non ci perseguita perché non lavoriamo o perché i corridoi sono sporchi! Nessuno ha mai detto che non facciamo il nostro lavoro come si deve e nel tempo richiesto. No, siamo perseguitati perché giochiamo a scopa nel teabreak! Il Direttore gliela fa lui una ramanzina al Manager». Siro per un momento non seppe cosa pensare. Poi disse: «Noi siamo proprio arrivati al fondo qui...». E girò lo sguardo attorno nel tunnel, come dire che il fondo per loro non era solo fisico e sociale ma anche umano. «Saremmo immigrati, si! Ma abbiamo dei diritti come gli altri! Questa è una nazione democratica! Non è come l’Italia, dove nessuno t’ascolta o devi farti raccomandare o pagare sottobanco. Vedrai. Aspetta e vedrai quando andremo dal direttore in persona». «You know, lui ha cominciato così come noi». «Il direttore, lo leggevo nel notiziario dell’ospedale, ha cominciato lavando i corridoi e poi pian piano ha fatto strada...». Ora era Domenico a essere pensieroso. Si concentrò sul lavoro e poi si fermò, «Ma come ha fatto a riuscire? Ad arrivare in alto?» «I don’t know... lavorando duro credo» «E noi? Io, io non ho lavorato duro per vent’anni e sono ancora qui! E mai la possibilità di farsi una famiglia! Com’è che sto ancora qui?!» Domenico si accese una delle rare sigarette che fumava, e, come per scusarsi, ne offrì una a Siro. Il suo sguardo era nebbioso, come fosse rivolto all’interno. «Certo - pensò - partire come lavoratore domestico e finire direttore generale, bisogna essere in gamba». «Le opportunità le ho avute pure io... opportunità di una volta...», cominciò a dire Domenico. Ma si fermò lì. Queste conclusioni fatalistiche provocavano in Siro un’inevitabile ondata di simpatia verso l’amico. «Look, Dom, anche se uno lavora più duramente, anche il doppio del direttore, non significa che uno poi diventi direttore». Siro cercò di consolare l’amico. E non ricevendo una reazione aggiunse: «You know what I mean? Forse ci sono centinaia di persone che meritano di diventare direttore dopo una vita di merda, ma non tutti hanno questa fortuna». Domenico avrebbe voluto tirare fuori i rospi che aveva in corpo, la miseria da cui veniva, la mancanza di un titolo di studio e non perché non fosse intelligente, tutt’altro. Ma abbassò la testa e buttò la sigaretta di fronte alla "lavapavimento". E i due ripresero a lavorare. Prima fecero il tratto più lungo, poi, si diressero nei tunnel laterali, nella direzione delle cucine. Domenico e Siro avevano passato il lunch-break nel ristorante self-service dell’ospedale, e mai, ma veramente mai, Domenico l’aveva trascorso senza una partita a scopa. Se non era una scopa all’italiana era una alla francese - o proprio nei casi disperati una briscola... Era rilassante, confortante e lo faceva sentire in Italia, nel paesello natio... Ma quel giorno, invece, quel giorno era lì che mischiava le carte nervosamente, incapace di distribuirle. Siro pazientemente spiegò a Jane, la cameriera con cui avevano una vecchia conoscenza, il fatto: il Manager aveva steso un rapporto su di loro perché giocavano a carte durante i riposi lavorativi. La cameriera era tutta solidarietà. Disse che anche lei si sarebbe sentita offesa e umiliata se durante i suoi break il Manager del ristorante si fosse permesso di proibirle di fare le parole incrociate facili sull’«Evening News». E aggiunse "Well, the Director General is nice! He’ll sort out your bloody Manager for you! He Will! Mr. Lookich is nice". «Lookich?» Siro ebbe l’impressione di aver sentito male. «Well, Lookich or Koochick..» disse la cameriera allontanandosi con gli ultimi piatti vuoti e vassoi di legno di tek che avevano impresso al centro il segno araldico del Kings College Hospital. Siro era ancora assorto su quell’imprecisione della cameriera quando Domenico, riattivando la "lavapavirnento", lo riportò a concentrarsi sul lavoro. E così i due lavoratori procedettero spingendo la macchina davanti a sé. Al Manager, che li spiava da dietro l’angolo all’inizio del corridoio, i due sembravano le corna di un’enorme lumaca che divorava lo sporco e lasciava dietro una vasta scia di pulito dove i neon, sempre accesi in mancanza di luce diurna, si riflettevano. «Che cazzoni che siamo stati! Con un direttore tanto bravo! E noi solo adesso lo sappiamo...», disse Domenico. «Ma non c’era nessuna ragione per incontrarlo prima...», rispose Siro. «Una persona tanto buona, e poi Direttore generale, bisogna incontrarla sia che se ne abbia bisogno sia che non! Perché non si sa mai... Persone brave così, ad altissimo livello, sono più rare del rinoceronte nero!», continuò Domenico. «Forse in Italia» suggerì Siro. «Oh Dio, in Italia sono una specie estinta. Ma, anche se rare, almeno qui ci sono...». Domenico, si guardò intorno per accettarsi che il Manager non li stava più spiando: «Ce l’hai il numero, lo chiamo adesso». Domenico fermò la "lumaca", ma la tenne col motore acceso, per dare l’impressione che lavorasse per due. Fortunatamente, o semplicemente perché aveva da fare, il Manager continuò per il suo cammino. Siro tirò un sospiro di sollievo. E si sentì meglio un quarto d’ora dopo quando vide Domenico affrettarsi a tornare. «Ma quanto tempo! - E allora?». «E allora niente!». «What?! Il direttore generale non ha voluto parlarti?» «No, no. Il fatto è che si trova all’estero...» «Shit!» «Lo so...», Domenico si rilassò un po’ e continuò: «La centralinista mi ha detto che il direttore viaggia più del papa e della regina messi assieme...» «Yes... Comunque, ho parlato con la segretaria personale. La segretaria è stata molto, molto helpful. Mi ha suggerito che è meglio scrivere prima un appuntamento. E appena il direttore ritorna ci riceverà». «Oh, that’s nice..». Ma Siro era preoccupato di nuovo, «Domenico, hai precisato, hai fatto capire alla segretaria che, che noi due... well, noi siamo solo due, due lavoratori manuali.. terraterra». Domenico gli lanciò un ghigno di e aggiunse «Quella mi ha detto che chiunque può scrivere al Direttore. Quello che conta non è chi sei ma la sostanza del ricorso. Hai capito? La sostanza!... Questa è de-mo-cra-zia. Con la "Z" maiuscola!». Alle 3.45 cominciò il quarto d’ora del tea-break pomeridiano. I due avevano sacrificato la tazza di tè e la partita a carte per ritirarsi negli spogliatoi. Qui, con molta fretta, Domenico aveva aperto il suo armadietto e raccattato una penna. Adesso Siro guardava non poco preoccupato al pezzo di carta che Domenico cercava di stirare come meglio poteva sul tavolo per farlo stare orizzontalmente. «Domenico, my friend, I think che la lettera al direttore dovrebbe essere, come si dice, scritta con un computer o, at least, con una macchina da scrivere». «Geraldine, questa ragazza irlandese che ho adesso...» «Ragazza? Quella è più vecchia di mia nonna...» «Okay. Ma sa scrivere a macchina! E il typing non ha età». Domenico rivolse a Siro uno di quegli sguardi sornioni, come per dire «mica mi prendi per uno scemo». «I know, la faremo copiare a macchina. Ma prima dobbiamo vedere cosa scrivere, no? La sostanza... poi la tua Geralda la batte a macchina». Per un momento i due sembrarono persi, non sapendo da dove cominciare. Poi Siro capì: «Domenico scrivi tu o scrivo io?» «Siro, io, è da quando hanno inventato il dannato telephone che non scrivo. Una volta scrivevo a casa, storpiamente, una volta ogni tanto, ma scrivevo, mi tenevo in esercizio. Ma adesso, sempre con il phone ho perso quel che avevo...» «Okay Dom, tu dimmi e io scrivo...» Domenico si concentrò qualche minuto. Poi disse: «La miglior cosa è cominciare dall’inizio». «Mica vorresti cominciare dalla fine?» «No, meglio cominciare dall’inizio!». E Domenico prese a dettare: «Egregio, si dice egregio, no? Illustrissimo Director General...» «No, si dice Dear, caro». «Caro? Hai visto come sono alla mano qui! Prova a scrivere a un direttore d’ospedale in Italia. Altro che caro! Se non metti "Illustrissimo" o qualcosa di superiore quello la lettera non la apre neanche... Allora pronti? Via! Dear Director Ettor... si chiama Ettor, no? «Hector», scrisse Siro. «Oh sì, con la "h" e la "c". Okay!» e Domenico riprese a dettare: «Dear Director General Hector. We are two cleaners in the hospital basement...» «Aspetta... Goobich?» «Mi sembra. Così ha detto la cameriera, no?» Siro pensò un minuto e aggiunse «Mi sembra che Jane abbia detto Lookich...» «E va bè scrivilo, allora!» «Ma io, io ho sempre saputo che era Koochick» «E allora scrivi Koochick...Datti da fare, tra dieci minuti il break finisce.. E muoviti!» Siro si riscosse «Ma si scrive Coochick?» Domenico sbuffò, trattenendo la collera, «Ma che cazzo, fai il volontario a scrivere e poi... allora non lo sai?» «Lo so come si scrive Koochick...», ribattè fermamente Siro. «E scrivilo. Dai. Non fare il... il particolare» «Ha lo stesso suono se la prima lettera è una "c" o una "k". Quale mettiamo?»
Domenico già non ne poteva più. «Ma non lo chiedere a me. Tu sei quello che scrive. Se ha lo stesso suono che differenza fa?» «No, no Domenico. Qui dobbiamo essere sicuri. Mica mi vuoi far fare brutta figura... E poi è anche controproducente. Se il direttore vede che gli storpiamo il nome si potrà anche offendere... Se vuoi io lo scrivo così com’è ma la lettera la firmi solo tu» «Solo io?» «E ti prendi la responsabilità» «Ma cazzo, Siro. Un po’ di logica? Se si dice Koochick, allora si scrive con la "k". No, aspetta: cosa aveva detto la cameriera? Toochick?» «No, non credo... Non mi ricordo più» «La cameriera mi sembra che abbia detto, sì, Goobich», concluse Domenico dopo un minuto di riflessione. «Ma lo vedi quello che voglio dire?» si spazientì Siro. «Il direttore è bravo e tutto, ci dà piena libertà di scrivergli dei nostri problemi. E’ lì che aspetta la nostra lettera per darci giustizia, no? Adesso il minimo che possiamo fare, la minima cortesia, è che scriviamo il nome per bene, no? Quello altrimenti crede che gli italiani sono tutti ignoranti». Domenico s’affrettò a chiarire «Ma vedi che è proprio quello che stavo dicendo io» «What? You were saying... tu stavi dicendo, right, di scrivere alla svelta un nome qualsiasi» «Ma che dici! Sono stato io quello che...» Ma Siro stroncò Domenico a mezza frase, «Jesus! tu hai sempre ragione!» Domenico si frenò dal contrattaccare, capendo che più Siro s’innervosiva e meno le sue capacità di scrivano avrebbero eccelso. Egli chiuse gli occhi per meglio concentrarsi. «Okay, okay. Non è il caso, Siro. Guarda ricordiamoci come si scrive, va bè?». E incominciò a recitare diverse interpretazioni di un suono, liquido e semplice che poteva essere Coochick or Boocick or Roochickk. Ed erano due "oo" o una "u" oppure "ou": «Ma perché gli inglesi quando pronunciano le parole non sono come gli italiani?». E, con nervosismo crescente, non poté fare a meno di pensare razzisticamente che gli inglesi erano una razza equivoca, per dirla cortesemente, e bastarda, a essere franchi, e se volevi una conferma era tutta lì, nello spelling. Intanto Siro scriveva giù tutte le possibilità del suono Cuchik. L’orologio sul muro segnava già le quattro. Il tea-break era bello che finito. E loro la lettera non l’avevano neanche incominciata. Lo spelling di Domenico era adesso completamente in alto mare. E balbuziava «Forse ci sono due kappa. Acca o senza acca. Forse sono tutte "g". Forse le "o" non ci sono proprio! Una volta ho visto il nome di un parlamentare che era Kubrick... Forse è lo stesso. Ma no, non può essere!...». Sempre più istericamente cominciava a darsi i pugni alla testa. Siro a sua volta scribacchiava sempre di più cercando di indovinare la sequenza letterale giusta. Ma era come vincere alla lotteria. La pagina era completamente coperta in entrambi i lati e in un eccesso di rabbia, con la penna che si rifiutava di scrivere, la accartocciò e la tirò all’orologio. Il suo sguardo si fermò abbastanza a lungo per notare che il break era finito da cinque minuti. Improvvisamente con un moto di violenza, Domenico si scaraventò contro la fila di armadietti metallici del personale domestico: pugni e calci a non finire. Solo dopo essersi stancato, passò a notare i danni inflitti. Nemmeno uno degli armadietti era sopravvissuto alla sua furia... Si girò a guardare Siro che era altrettanto isterico ed esplose: «Come cazzo è possibile! Che il Direttore, una persona tanto onesta, tanto brava, così accessibile e pronta ad aiutarti, deve avere un nome del cazzo che non si può neanche scrivere?» Un attimo dopo la porta degli spogliatoi si aprì. Quando si girarono videro il Manager. La "lumaca"ronzava. I grembiuli grigi ben legati al corpo sugli stivaloni e le maniche arrotolate, le mani di nuovo nei guanti gialli di materia plastica. Siro e Domenico lavavano l’angolo di un altro corridoio nell’opprimente interrato. Entrambi erano reduci da una mezz’ora trascorsa nell’ufficio del Manager che aveva provveduto a metterli, metaforicamente, sotto i piedi. Non ci furono solo rimproveri a non finire ma la ferma promessa che avrebbero pagato quegli armadietti fino all’ultimo centesimo. Siro rabbrividì quando pensò che sarebbero state per lo meno cinquecento sterline. Voleva quasi rispondere che sarebbe toccato a Domenico pagarli, perché per quanto lo riguardava lui aveva soltanto tirato un innocuo cartoccio di carta all’orologio sul muro. Ma si riserbò di affrontare l’argomento in una migliore occasione. Domenico guardò il suo orologio. Le cinque. Un’altra ora e la loro giornata di lavoro sarebbe finita. «lo penso che il Manager, sì, abbia annusato il pericolo» commentò Domenico continuando la discussione che, ovviamente, era cominciata quando il Manager li aveva messi alla porta. «Perché?» «Come, non glielo ho forse chiesto? Tu eri presente, no? E lui mi dice "I dont’ know". Adesso, dimmi, com’è possibile che il Manager non conosca il nome del direttore?» «Se capita a noi di non saperlo, può capitare anche a lui», rispose Siro. «Si, ma noi non siamo inglesi. L’inglese non lo sappiamo bene. Il Manager è inglese. Deve aver fatto anche l’università. E anche ammesso che non lo sapesse, nell’ufficio ci sono lettere intestate, brochures e documenti col nome del direttore stampato» «lo non ci ho fatto caso - disse Siro - e ti assicuro che guardavo dappertutto, proprio per rubare momentaneamente qualche documento con il nome stampato del direttore». «I documenti ce li hanno negli schedari, no...» spiegò Domenico. «Mr. Linchfield non doveva far altro che copiarlo da uno dei documenti. Lui, il furbo, ha annusato per quale ragione noi vogliamo scrivere. E non vuole che la nostra versione raggiunga il direttore. Così ha messo la scusa che non lo sapeva. Credi che gli inglesi siano stupidi...» Domenico fermò la "lavapavimento" e guardò con disgusto al mucchio di scatole di cartone, panni sporchi, cenci, giornali e riviste che ingombravano quell’angolo cieco dell’interrato. «Ma quante volte devo dirglielo di usare il rubbish bin! E quelli sempre che scaricano tutto qui. Che stai a guardare. Siro? Metti tutto nei sacchi di plastica che poi li gettiamo nella spazzatura». «Wait. Stavo pensando... Lo nominano spesso nei giornali, no?» «What?» «Il direttore. Lo nominano spesso nei giornali...» Di colpo Domenico capì e, senza neanche spegnere la "lumaca", si buttò sul mucchio di immondizia districando fuori quanto più giornali poteva. Li passava a Siro che, a sua volta, li spolverava e subito ebbero un paio di mucchietti ben piegati l’uno sull’altro. «Tu fai quel mucchio e io faccio questo!», impartì Domenico. E subito, i due erano accoccolati a spiegazzare i giornali al centro del pavimento. «È una parola trovarlo adesso, non ho neanche gli occhiali», borbottò Domenico. «Guarda per gli articoli sul Welfare State... Sul National health.. », diceva Siro. Pochi minuti dopo quasi un grido «Look! Guarda!» e si fissò sull’articolo che aveva trovato. Domenico lasciò il suo mucchio e corse dall’amico. «Dov’è? Dov’è?» chiedeva. «Look, ma guarda che cazzo!» proruppe Siro disgustato. «Ma dove cazzo è!» insistette Domenico. Siro puntò col dito «Andreotti, accusato di omicidio!». «Ma chi cazzo se ne frega! Lascia stare i cazzi dell’Italia e pensa ai cazzi nostri!...E se ci mettiamo a leggere il Milan e la Juve, qua non la finiamo mai!» «Hai ragione» commentò Siro «d’altronde sono cose che fanno vomitare e di vomitare non me la sento proprio... » «Ecco! Ecco!», urlò Domenico un minuto dopo che era ritornato al suo mucchio di giornali... E mostrò il ritaglio a Siro. «Dice "King’s College, Liver transplant...", parla delle operazioni di fegato che fanno qui, no? The Director General, Coochick and his wife on Bahamas trip. È nelle Bahamas e dice che è favorevole alla privatizzazione degli ospedali» «Va bè, ma guarda, come si scrive...» incalzò Domenico. «Sì, aspetta che c’è un altro articolo qua... Qui scrivono senza Coocik senza "h"». Domenico s’accigliò, «Come senza "h"?» «No, non c’è l’"h"». Che te la vuoi prendere con me? Troviamone altri... metti da parte i trafiletti che trovi e poi facciamo il paragone», suggerì Siro.
E i due ripresero la caccia agli articoli. Un quarto d’ora dopo i giornali erano esauriti. I due colleghi, ognuno con la sua raccolta di ritagli, si sedettero sul panchetto al lato del corridoio, proprio di fianco alle toilets per uomini. E cominciarono a confrontare tutte le volte che il nome del direttore veniva citato. «Questa qua ha una "x"», cominciò Siro. «Ma che "z" del cazzo. La "z" non c’era mai stata prima» «E adesso qui lo scrivono con la "z". Cootzchik» «E sarà un errore di stampa». E poi Domenico aggiunse «questo ha "ch" e quest’altro ha invece una "k"...» «Well, di chi ti fidi di più? Del "Times" o del "Daily Telegraph"?» chiese Siro. «Che domanda da scemo, è nato prima l’uovo o la gallina?» Ancora una volta i due si immersero nella lettura dei ritagli. Ovunque comparisse il nome del direttore, loro lo sottolineavano con la penna. «Coochick... Coochik... Coochik... Coochick... Coochick...» chioccolavano i due. Ma se il suono era uno e preciso, si trovarono subito coi risultati dello spelling nelle mani. Siro contò mentalmente «Un totale di otto citazioni e ci sono tre modi diversi di scrivere il nome del direttore. Tre esempi con la "k", quattro con "ch" e uno la "sh"! Senza contare quello con la "z" e quello senza "h" di prima». «Ma che giornalisti del cazzo!» sbottò Domenico. «È un nome complicato» azzardò una giustifica Siro. Lo sguardo di disgusto di Domenico gli produsse un ghigno che faceva compassione. «Complicato, certo! Per noi che siamo italiani! Non lo dovrebbe essere per loro che sono inglesi e professionisti! È una cospirazione bell’e buona! Che cazzo di giustizia è mai questa! Se con tutta la democrazia di questo mondo non possiamo scrivere un indirizzo su una busta di carta!... In Italia una cosa del genere non mi è mai successa! Sarà che la nostra democrazia fa schifo, e non dico di no, ma Cristo! almeno ai nostri possiamo scrivere!» «A che vale saper scrivere i nomi in Italia - commentò Siro- se la lettera non te la legge nessuno». «Ma almeno va all’indirizzo giusto, alla persona giusta!» «...e direttamente nel cestino», concluse Siro con un’intonazione monellesca. Di nuovo Domenico lo guardò brutto-brutto. «Non sto a difendere gli inglesi... ma loro il senso della giustizia ce l’hanno» s’affrettò a dire Siro. «Ma va affanculo! Che cazzo di giustizia è questa se nessuno ti sente!». Ma Domenico dovette subito ricredersi. Qualcuno li stava ascoltando fin troppo attentamente. E, avvertendo una presenza, si voltarono. Il Manager stava dietro di loro. «Guarda un po’, questo ha fatto l’abitudine di sorprenderci» borbottò Siro. E, soltanto in quel momento, i due amici si accorsero che nell’affanno e nella furia di recuperare i giornali avevano sparso sporcizia dappertutto. Il Manager sorrise compiaciuto, come per dire «adesso siete veramente fregati». «Credevo che vi pagavamo pulire e non per sporcare... ma mi ero sbagliato». Siro di nascosto trattenne Domenico dall’avventarsi sul Manager. Quell’ironia crudele lo faceva diventare una bestia. «Questo è vandalismo» - continuò Mister Linchfield - che, aggiunto al giocare a carte e al danno agli armadietti, rende il tutto non più tollerabile. Domani, siete avvisati, non presentatevi più. Qualsiasi ammontare ancora dovuto vi sarà mandato per posta» «Jesus» pensò Siro. Questo era licenziamento sul posto. E lui che aveva progettato di andare con la sua irlandese a farsi un di vacanza in Irlanda.. E aveva bisogno di più soldi che poteva. Così, quando Domenico cominciò ad abbaiare verso il Manager «Chi cazzo ti credi di...», gli tappò la bocca e lo spinse dietro di sé. «Mi dispiace, ma adesso il servizio domestico è privatizzato. Non avete più il sindacato che vi protegge. Io ho l’ordine di licenziare sul posto e ridurre i costi. Veramente vi dovevo licenziare da questa mattina». «Look sir, la preghiamo di perdonarci. Puliremo tutto com’era», assicurò Siro. Ma il Manager era adesso attratto dai ritagli di giornali. E notò il nome del direttore sottolineato dovunque appariva. E rivolgendosi nuovamente a loro disse «Cos’è? Kidnapping? Mafia». Siro s’affrettò a scusarsi «No, guarda, excuse me Mister Linchfield, mica pensa, dice sul serio?...» «Per quale motivo siete a Londra?», intimò nervosamente Mister Linchfield. «Motivo? Per lavoro, che altro motivo possiamo avere. Sarete nuovo ma non avete visto che io lavoro qui da quindici anni e Domenico da ventidue?» «Vedi, io non credo che siate qui per lavoro...» disse risolutamente il Manager. «Che cazzo vuoi dire», gridò Domenico. Il Manager li guardava mentre indietreggiava lentamente. Adesso aveva veramente paura perché tremava visibilmente. E improvvisamente, si girò e si mise a correre via come un pazzo. «Christ!», esclamò Siro incapace di credere ai suoi occhi. Domenico si crepava dalle risate. «Ah! Ah! Ah!... Quello... hai sentito! Kidnapping! Mafia! Ah! Ah! Quello veramente crede che noi... Ah! Ah! Ah! Hai visto come correva! Che fregnone!» Ma Siro era più che preoccupato: «Ma guarda che io a carte giocavo solo farti compagnia... Alla fin fine se non vogliono farci giocare non giochiamo...» «Nel tea-break facciamo quello che ci piace! È un diritto». «Ma a me non me ne frega! Io qui venivo per lavorare e portami a casa la settimana! Se non si gioca a scopa non è che ti ammazzano la madre! No? E tu fai tanto trambusto! Addirittura devi andare a scrivere al direttore!» «Oh, ma che cazzo dici, Siro! Guarda che è una questione di giustizia! Di diritti umani». «Ma chi se ne frega! Adesso mi hai fatto perdere il posto! Che faccio adesso? Il lavapiatti nel West End? Dove non ti danno neppure la paga minima!... Lì sì che ti fanno cacare duro! Altro che diritti umani!... Qui era una pacchia in confronto!» «Ma giocare a carte è sempre stato...» «Ma non me ne frega! Domenico! Le carte non le voglio vedere più! E neanche te!...» «Ma Siro! Guarda che qui lo scemo sei tu! Quello ci ha accusato di kidnapping e mafia, solo perché siamo italiani!» «Non me ne frega! Io volevo lavorare e basta! Io sto cercando di mettere su una famiglia, Okay!» «Okay! Okay! Ma io al direttore gli scrivo lo stesso! Gli scrivo da solo! E vedrai la giustizia!» «Fuck off, Domenico!» «Va affanculo tu!, Siro» E minacciandosi a vicenda e bestemmiando Domenico e Siro quella sera si separarono. Non si videro mai più. Dopo il licenziamento Siro se ne andò nell’Irlanda del Nord a vivere con la sua ragazza. Domenico non trovò più lavoro e, dopo ventitré anni all’estero, se ne tornò al suo paese in Italia. Adesso gioca a carte nel bar.
Non sono argomenti convenzionali e aderenti al turismo, ma pur di movimenti, spostamenti si tratta: gente che emigra, gente che evade, gente in cerca di nuove dimensioni in altre terre, gente stufa e curiosa con il suo carico di dolore, di passioni, speranze e humanitas. A pensarci bene, l'essenza stessa del viaggio.
Principierò con il racconto di uno dei miei migliori amici, Michele Celeste, che tanti anni fa si trasferì a Londra, ed ivi iniziò il suo percorso di scrittore.
LETTERA AL DIRETTORE
Michele Celeste
«Io non gliela faccio vincere! Never!», sbottò Domenico e la risolutezza gli scolpiva la faccia marmorea. Siro, che a giocare ci teneva sì, ma non tanto - lo faceva, infatti, più per far compagnia all’altro che per se stesso - annuì: «Ma veramente, you know, cosa possiamo fa’?». Erano più o meno quindici anni che stava a Londra e, sfortunato per non aver trovato una moglie italiana, si era messo con una irlandese con la quale, almeno dal punto di vista cattolico, si poteva capire. Ma per il fatto che lei non parlava l’italiano, lui era obbligato a parlare continuamente in inglese quando era a casa. Infatti aveva cominciato a perdere l’accento del Friuli e, sempre più spesso, gli capitava di mischiare parole inglesi all’italiano e parole italiane all’inglese. C’erano momenti in cui Domenico, sentendosi dire frasi col cinquanta per cento di tutte e due le lingue, non capiva quale lingua Siro cercasse di parlare. «Se non si può fare un partita a carte durante il tea-break che cazzo ce lo prendiamo a fare il tea-break...». «Il tea break è una tazza di tè. Fumarsi una sigaretta». «Ma che il tea-break è per rilassarsi! Relax!». «È proprio quello che ho appena detto. A cup of tea serve proprio per rilassarsi», ribatté Siro in un raro tentativo di far valere la sua opinione. Ma Domenico lo zittì subito, «E poi mica giochiamo d’azzardo... Ci giochiamo la tazza di plastica, di plastica di tè proprio come al paese ci si gioca l’espresso... È la tradizione, la tradizione che va a morire! Capisci, Siro?». «Yes, yes. I understand, Dom». «Chi lava e scopa questi tunnel?... Messi insieme più lunghi di quello della Manica!...E chi toglie la polvere qua?... Noi! Sempre noi! E come ringraziamento adesso ci tolgono pure il diritto di sederci sul panchetto per fami una scopa!». «I know, Dom. La colpa è tutta di Maggie Thatcher. Con tutto il danno che that woman ha fatto all’Union...». «Ma che sindacato e sindacato del cazzo! Che c’entrano i sindacati? Questo è un affronto, un affronto personale! A me! E anche a te! Come italiani! Come immigrati! E tu gliela vuoi far passare liscia al Manager?!». «No, I never said...». «lt’s no joke! Non è una da niente, Siro!». A Siro scopare e lavare il sotterraneo non è che gli piacesse tanto. Ma s’era abituato. In tanti anni - quindici - il corpo si era adattato alle specifiche richieste del suo lavoro e certo che era bello lavorare automaticamente, senza scervellarsi. L’alternativa sarebbe stata lavorare in un hotel o un ristorante a lavare piatti, e quella era veramente schiavitù. La paga era al disotto della minima sindacale ed eri sempre sotto gli occhi di tutti. E come lavapiatti tutti ti comandavano a destra e a sinistra: dai cuochi, ai camerieri, ai Manager. Qui, invece, se dovevi pisciare, lasciavi e andavi, senza dar conto a nessuno. E la paga era a livello nazionale. Domenico vide il Manager passare sul fondo del corridoio e gesticolò a Siro di darsi da fare con la "lavapavimento". La macchina ronzò in azione e subito cominciò a spruzzare fuori acqua, a strofinare e a risucchiare l’acqua sporca. Domenico alzò la voce al disopra del rumore, «Siro!» «Yeah» «Questa volta andiamo dritto dritto al vertice!» «Che vertice?» «Il Direttore!» «The Hospital Director?... E chi è?» «Ma ci sarà pure un direttore, no! Ebbene, gli spieghiamo la situazione! E vedrai come questa storia finisce! Il Manager non ci perseguita perché non lavoriamo o perché i corridoi sono sporchi! Nessuno ha mai detto che non facciamo il nostro lavoro come si deve e nel tempo richiesto. No, siamo perseguitati perché giochiamo a scopa nel teabreak! Il Direttore gliela fa lui una ramanzina al Manager». Siro per un momento non seppe cosa pensare. Poi disse: «Noi siamo proprio arrivati al fondo qui...». E girò lo sguardo attorno nel tunnel, come dire che il fondo per loro non era solo fisico e sociale ma anche umano. «Saremmo immigrati, si! Ma abbiamo dei diritti come gli altri! Questa è una nazione democratica! Non è come l’Italia, dove nessuno t’ascolta o devi farti raccomandare o pagare sottobanco. Vedrai. Aspetta e vedrai quando andremo dal direttore in persona». «You know, lui ha cominciato così come noi». «Il direttore, lo leggevo nel notiziario dell’ospedale, ha cominciato lavando i corridoi e poi pian piano ha fatto strada...». Ora era Domenico a essere pensieroso. Si concentrò sul lavoro e poi si fermò, «Ma come ha fatto a riuscire? Ad arrivare in alto?» «I don’t know... lavorando duro credo» «E noi? Io, io non ho lavorato duro per vent’anni e sono ancora qui! E mai la possibilità di farsi una famiglia! Com’è che sto ancora qui?!» Domenico si accese una delle rare sigarette che fumava, e, come per scusarsi, ne offrì una a Siro. Il suo sguardo era nebbioso, come fosse rivolto all’interno. «Certo - pensò - partire come lavoratore domestico e finire direttore generale, bisogna essere in gamba». «Le opportunità le ho avute pure io... opportunità di una volta...», cominciò a dire Domenico. Ma si fermò lì. Queste conclusioni fatalistiche provocavano in Siro un’inevitabile ondata di simpatia verso l’amico. «Look, Dom, anche se uno lavora più duramente, anche il doppio del direttore, non significa che uno poi diventi direttore». Siro cercò di consolare l’amico. E non ricevendo una reazione aggiunse: «You know what I mean? Forse ci sono centinaia di persone che meritano di diventare direttore dopo una vita di merda, ma non tutti hanno questa fortuna». Domenico avrebbe voluto tirare fuori i rospi che aveva in corpo, la miseria da cui veniva, la mancanza di un titolo di studio e non perché non fosse intelligente, tutt’altro. Ma abbassò la testa e buttò la sigaretta di fronte alla "lavapavimento". E i due ripresero a lavorare. Prima fecero il tratto più lungo, poi, si diressero nei tunnel laterali, nella direzione delle cucine. Domenico e Siro avevano passato il lunch-break nel ristorante self-service dell’ospedale, e mai, ma veramente mai, Domenico l’aveva trascorso senza una partita a scopa. Se non era una scopa all’italiana era una alla francese - o proprio nei casi disperati una briscola... Era rilassante, confortante e lo faceva sentire in Italia, nel paesello natio... Ma quel giorno, invece, quel giorno era lì che mischiava le carte nervosamente, incapace di distribuirle. Siro pazientemente spiegò a Jane, la cameriera con cui avevano una vecchia conoscenza, il fatto: il Manager aveva steso un rapporto su di loro perché giocavano a carte durante i riposi lavorativi. La cameriera era tutta solidarietà. Disse che anche lei si sarebbe sentita offesa e umiliata se durante i suoi break il Manager del ristorante si fosse permesso di proibirle di fare le parole incrociate facili sull’«Evening News». E aggiunse "Well, the Director General is nice! He’ll sort out your bloody Manager for you! He Will! Mr. Lookich is nice". «Lookich?» Siro ebbe l’impressione di aver sentito male. «Well, Lookich or Koochick..» disse la cameriera allontanandosi con gli ultimi piatti vuoti e vassoi di legno di tek che avevano impresso al centro il segno araldico del Kings College Hospital. Siro era ancora assorto su quell’imprecisione della cameriera quando Domenico, riattivando la "lavapavirnento", lo riportò a concentrarsi sul lavoro. E così i due lavoratori procedettero spingendo la macchina davanti a sé. Al Manager, che li spiava da dietro l’angolo all’inizio del corridoio, i due sembravano le corna di un’enorme lumaca che divorava lo sporco e lasciava dietro una vasta scia di pulito dove i neon, sempre accesi in mancanza di luce diurna, si riflettevano. «Che cazzoni che siamo stati! Con un direttore tanto bravo! E noi solo adesso lo sappiamo...», disse Domenico. «Ma non c’era nessuna ragione per incontrarlo prima...», rispose Siro. «Una persona tanto buona, e poi Direttore generale, bisogna incontrarla sia che se ne abbia bisogno sia che non! Perché non si sa mai... Persone brave così, ad altissimo livello, sono più rare del rinoceronte nero!», continuò Domenico. «Forse in Italia» suggerì Siro. «Oh Dio, in Italia sono una specie estinta. Ma, anche se rare, almeno qui ci sono...». Domenico, si guardò intorno per accettarsi che il Manager non li stava più spiando: «Ce l’hai il numero, lo chiamo adesso». Domenico fermò la "lumaca", ma la tenne col motore acceso, per dare l’impressione che lavorasse per due. Fortunatamente, o semplicemente perché aveva da fare, il Manager continuò per il suo cammino. Siro tirò un sospiro di sollievo. E si sentì meglio un quarto d’ora dopo quando vide Domenico affrettarsi a tornare. «Ma quanto tempo! - E allora?». «E allora niente!». «What?! Il direttore generale non ha voluto parlarti?» «No, no. Il fatto è che si trova all’estero...» «Shit!» «Lo so...», Domenico si rilassò un po’ e continuò: «La centralinista mi ha detto che il direttore viaggia più del papa e della regina messi assieme...» «Yes... Comunque, ho parlato con la segretaria personale. La segretaria è stata molto, molto helpful. Mi ha suggerito che è meglio scrivere prima un appuntamento. E appena il direttore ritorna ci riceverà». «Oh, that’s nice..». Ma Siro era preoccupato di nuovo, «Domenico, hai precisato, hai fatto capire alla segretaria che, che noi due... well, noi siamo solo due, due lavoratori manuali.. terraterra». Domenico gli lanciò un ghigno di e aggiunse «Quella mi ha detto che chiunque può scrivere al Direttore. Quello che conta non è chi sei ma la sostanza del ricorso. Hai capito? La sostanza!... Questa è de-mo-cra-zia. Con la "Z" maiuscola!». Alle 3.45 cominciò il quarto d’ora del tea-break pomeridiano. I due avevano sacrificato la tazza di tè e la partita a carte per ritirarsi negli spogliatoi. Qui, con molta fretta, Domenico aveva aperto il suo armadietto e raccattato una penna. Adesso Siro guardava non poco preoccupato al pezzo di carta che Domenico cercava di stirare come meglio poteva sul tavolo per farlo stare orizzontalmente. «Domenico, my friend, I think che la lettera al direttore dovrebbe essere, come si dice, scritta con un computer o, at least, con una macchina da scrivere». «Geraldine, questa ragazza irlandese che ho adesso...» «Ragazza? Quella è più vecchia di mia nonna...» «Okay. Ma sa scrivere a macchina! E il typing non ha età». Domenico rivolse a Siro uno di quegli sguardi sornioni, come per dire «mica mi prendi per uno scemo». «I know, la faremo copiare a macchina. Ma prima dobbiamo vedere cosa scrivere, no? La sostanza... poi la tua Geralda la batte a macchina». Per un momento i due sembrarono persi, non sapendo da dove cominciare. Poi Siro capì: «Domenico scrivi tu o scrivo io?» «Siro, io, è da quando hanno inventato il dannato telephone che non scrivo. Una volta scrivevo a casa, storpiamente, una volta ogni tanto, ma scrivevo, mi tenevo in esercizio. Ma adesso, sempre con il phone ho perso quel che avevo...» «Okay Dom, tu dimmi e io scrivo...» Domenico si concentrò qualche minuto. Poi disse: «La miglior cosa è cominciare dall’inizio». «Mica vorresti cominciare dalla fine?» «No, meglio cominciare dall’inizio!». E Domenico prese a dettare: «Egregio, si dice egregio, no? Illustrissimo Director General...» «No, si dice Dear, caro». «Caro? Hai visto come sono alla mano qui! Prova a scrivere a un direttore d’ospedale in Italia. Altro che caro! Se non metti "Illustrissimo" o qualcosa di superiore quello la lettera non la apre neanche... Allora pronti? Via! Dear Director Ettor... si chiama Ettor, no? «Hector», scrisse Siro. «Oh sì, con la "h" e la "c". Okay!» e Domenico riprese a dettare: «Dear Director General Hector. We are two cleaners in the hospital basement...» «Aspetta... Goobich?» «Mi sembra. Così ha detto la cameriera, no?» Siro pensò un minuto e aggiunse «Mi sembra che Jane abbia detto Lookich...» «E va bè scrivilo, allora!» «Ma io, io ho sempre saputo che era Koochick» «E allora scrivi Koochick...Datti da fare, tra dieci minuti il break finisce.. E muoviti!» Siro si riscosse «Ma si scrive Coochick?» Domenico sbuffò, trattenendo la collera, «Ma che cazzo, fai il volontario a scrivere e poi... allora non lo sai?» «Lo so come si scrive Koochick...», ribattè fermamente Siro. «E scrivilo. Dai. Non fare il... il particolare» «Ha lo stesso suono se la prima lettera è una "c" o una "k". Quale mettiamo?»
Domenico già non ne poteva più. «Ma non lo chiedere a me. Tu sei quello che scrive. Se ha lo stesso suono che differenza fa?» «No, no Domenico. Qui dobbiamo essere sicuri. Mica mi vuoi far fare brutta figura... E poi è anche controproducente. Se il direttore vede che gli storpiamo il nome si potrà anche offendere... Se vuoi io lo scrivo così com’è ma la lettera la firmi solo tu» «Solo io?» «E ti prendi la responsabilità» «Ma cazzo, Siro. Un po’ di logica? Se si dice Koochick, allora si scrive con la "k". No, aspetta: cosa aveva detto la cameriera? Toochick?» «No, non credo... Non mi ricordo più» «La cameriera mi sembra che abbia detto, sì, Goobich», concluse Domenico dopo un minuto di riflessione. «Ma lo vedi quello che voglio dire?» si spazientì Siro. «Il direttore è bravo e tutto, ci dà piena libertà di scrivergli dei nostri problemi. E’ lì che aspetta la nostra lettera per darci giustizia, no? Adesso il minimo che possiamo fare, la minima cortesia, è che scriviamo il nome per bene, no? Quello altrimenti crede che gli italiani sono tutti ignoranti». Domenico s’affrettò a chiarire «Ma vedi che è proprio quello che stavo dicendo io» «What? You were saying... tu stavi dicendo, right, di scrivere alla svelta un nome qualsiasi» «Ma che dici! Sono stato io quello che...» Ma Siro stroncò Domenico a mezza frase, «Jesus! tu hai sempre ragione!» Domenico si frenò dal contrattaccare, capendo che più Siro s’innervosiva e meno le sue capacità di scrivano avrebbero eccelso. Egli chiuse gli occhi per meglio concentrarsi. «Okay, okay. Non è il caso, Siro. Guarda ricordiamoci come si scrive, va bè?». E incominciò a recitare diverse interpretazioni di un suono, liquido e semplice che poteva essere Coochick or Boocick or Roochickk. Ed erano due "oo" o una "u" oppure "ou": «Ma perché gli inglesi quando pronunciano le parole non sono come gli italiani?». E, con nervosismo crescente, non poté fare a meno di pensare razzisticamente che gli inglesi erano una razza equivoca, per dirla cortesemente, e bastarda, a essere franchi, e se volevi una conferma era tutta lì, nello spelling. Intanto Siro scriveva giù tutte le possibilità del suono Cuchik. L’orologio sul muro segnava già le quattro. Il tea-break era bello che finito. E loro la lettera non l’avevano neanche incominciata. Lo spelling di Domenico era adesso completamente in alto mare. E balbuziava «Forse ci sono due kappa. Acca o senza acca. Forse sono tutte "g". Forse le "o" non ci sono proprio! Una volta ho visto il nome di un parlamentare che era Kubrick... Forse è lo stesso. Ma no, non può essere!...». Sempre più istericamente cominciava a darsi i pugni alla testa. Siro a sua volta scribacchiava sempre di più cercando di indovinare la sequenza letterale giusta. Ma era come vincere alla lotteria. La pagina era completamente coperta in entrambi i lati e in un eccesso di rabbia, con la penna che si rifiutava di scrivere, la accartocciò e la tirò all’orologio. Il suo sguardo si fermò abbastanza a lungo per notare che il break era finito da cinque minuti. Improvvisamente con un moto di violenza, Domenico si scaraventò contro la fila di armadietti metallici del personale domestico: pugni e calci a non finire. Solo dopo essersi stancato, passò a notare i danni inflitti. Nemmeno uno degli armadietti era sopravvissuto alla sua furia... Si girò a guardare Siro che era altrettanto isterico ed esplose: «Come cazzo è possibile! Che il Direttore, una persona tanto onesta, tanto brava, così accessibile e pronta ad aiutarti, deve avere un nome del cazzo che non si può neanche scrivere?» Un attimo dopo la porta degli spogliatoi si aprì. Quando si girarono videro il Manager. La "lumaca"ronzava. I grembiuli grigi ben legati al corpo sugli stivaloni e le maniche arrotolate, le mani di nuovo nei guanti gialli di materia plastica. Siro e Domenico lavavano l’angolo di un altro corridoio nell’opprimente interrato. Entrambi erano reduci da una mezz’ora trascorsa nell’ufficio del Manager che aveva provveduto a metterli, metaforicamente, sotto i piedi. Non ci furono solo rimproveri a non finire ma la ferma promessa che avrebbero pagato quegli armadietti fino all’ultimo centesimo. Siro rabbrividì quando pensò che sarebbero state per lo meno cinquecento sterline. Voleva quasi rispondere che sarebbe toccato a Domenico pagarli, perché per quanto lo riguardava lui aveva soltanto tirato un innocuo cartoccio di carta all’orologio sul muro. Ma si riserbò di affrontare l’argomento in una migliore occasione. Domenico guardò il suo orologio. Le cinque. Un’altra ora e la loro giornata di lavoro sarebbe finita. «lo penso che il Manager, sì, abbia annusato il pericolo» commentò Domenico continuando la discussione che, ovviamente, era cominciata quando il Manager li aveva messi alla porta. «Perché?» «Come, non glielo ho forse chiesto? Tu eri presente, no? E lui mi dice "I dont’ know". Adesso, dimmi, com’è possibile che il Manager non conosca il nome del direttore?» «Se capita a noi di non saperlo, può capitare anche a lui», rispose Siro. «Si, ma noi non siamo inglesi. L’inglese non lo sappiamo bene. Il Manager è inglese. Deve aver fatto anche l’università. E anche ammesso che non lo sapesse, nell’ufficio ci sono lettere intestate, brochures e documenti col nome del direttore stampato» «lo non ci ho fatto caso - disse Siro - e ti assicuro che guardavo dappertutto, proprio per rubare momentaneamente qualche documento con il nome stampato del direttore». «I documenti ce li hanno negli schedari, no...» spiegò Domenico. «Mr. Linchfield non doveva far altro che copiarlo da uno dei documenti. Lui, il furbo, ha annusato per quale ragione noi vogliamo scrivere. E non vuole che la nostra versione raggiunga il direttore. Così ha messo la scusa che non lo sapeva. Credi che gli inglesi siano stupidi...» Domenico fermò la "lavapavimento" e guardò con disgusto al mucchio di scatole di cartone, panni sporchi, cenci, giornali e riviste che ingombravano quell’angolo cieco dell’interrato. «Ma quante volte devo dirglielo di usare il rubbish bin! E quelli sempre che scaricano tutto qui. Che stai a guardare. Siro? Metti tutto nei sacchi di plastica che poi li gettiamo nella spazzatura». «Wait. Stavo pensando... Lo nominano spesso nei giornali, no?» «What?» «Il direttore. Lo nominano spesso nei giornali...» Di colpo Domenico capì e, senza neanche spegnere la "lumaca", si buttò sul mucchio di immondizia districando fuori quanto più giornali poteva. Li passava a Siro che, a sua volta, li spolverava e subito ebbero un paio di mucchietti ben piegati l’uno sull’altro. «Tu fai quel mucchio e io faccio questo!», impartì Domenico. E subito, i due erano accoccolati a spiegazzare i giornali al centro del pavimento. «È una parola trovarlo adesso, non ho neanche gli occhiali», borbottò Domenico. «Guarda per gli articoli sul Welfare State... Sul National health.. », diceva Siro. Pochi minuti dopo quasi un grido «Look! Guarda!» e si fissò sull’articolo che aveva trovato. Domenico lasciò il suo mucchio e corse dall’amico. «Dov’è? Dov’è?» chiedeva. «Look, ma guarda che cazzo!» proruppe Siro disgustato. «Ma dove cazzo è!» insistette Domenico. Siro puntò col dito «Andreotti, accusato di omicidio!». «Ma chi cazzo se ne frega! Lascia stare i cazzi dell’Italia e pensa ai cazzi nostri!...E se ci mettiamo a leggere il Milan e la Juve, qua non la finiamo mai!» «Hai ragione» commentò Siro «d’altronde sono cose che fanno vomitare e di vomitare non me la sento proprio... » «Ecco! Ecco!», urlò Domenico un minuto dopo che era ritornato al suo mucchio di giornali... E mostrò il ritaglio a Siro. «Dice "King’s College, Liver transplant...", parla delle operazioni di fegato che fanno qui, no? The Director General, Coochick and his wife on Bahamas trip. È nelle Bahamas e dice che è favorevole alla privatizzazione degli ospedali» «Va bè, ma guarda, come si scrive...» incalzò Domenico. «Sì, aspetta che c’è un altro articolo qua... Qui scrivono senza Coocik senza "h"». Domenico s’accigliò, «Come senza "h"?» «No, non c’è l’"h"». Che te la vuoi prendere con me? Troviamone altri... metti da parte i trafiletti che trovi e poi facciamo il paragone», suggerì Siro.
E i due ripresero la caccia agli articoli. Un quarto d’ora dopo i giornali erano esauriti. I due colleghi, ognuno con la sua raccolta di ritagli, si sedettero sul panchetto al lato del corridoio, proprio di fianco alle toilets per uomini. E cominciarono a confrontare tutte le volte che il nome del direttore veniva citato. «Questa qua ha una "x"», cominciò Siro. «Ma che "z" del cazzo. La "z" non c’era mai stata prima» «E adesso qui lo scrivono con la "z". Cootzchik» «E sarà un errore di stampa». E poi Domenico aggiunse «questo ha "ch" e quest’altro ha invece una "k"...» «Well, di chi ti fidi di più? Del "Times" o del "Daily Telegraph"?» chiese Siro. «Che domanda da scemo, è nato prima l’uovo o la gallina?» Ancora una volta i due si immersero nella lettura dei ritagli. Ovunque comparisse il nome del direttore, loro lo sottolineavano con la penna. «Coochick... Coochik... Coochik... Coochick... Coochick...» chioccolavano i due. Ma se il suono era uno e preciso, si trovarono subito coi risultati dello spelling nelle mani. Siro contò mentalmente «Un totale di otto citazioni e ci sono tre modi diversi di scrivere il nome del direttore. Tre esempi con la "k", quattro con "ch" e uno la "sh"! Senza contare quello con la "z" e quello senza "h" di prima». «Ma che giornalisti del cazzo!» sbottò Domenico. «È un nome complicato» azzardò una giustifica Siro. Lo sguardo di disgusto di Domenico gli produsse un ghigno che faceva compassione. «Complicato, certo! Per noi che siamo italiani! Non lo dovrebbe essere per loro che sono inglesi e professionisti! È una cospirazione bell’e buona! Che cazzo di giustizia è mai questa! Se con tutta la democrazia di questo mondo non possiamo scrivere un indirizzo su una busta di carta!... In Italia una cosa del genere non mi è mai successa! Sarà che la nostra democrazia fa schifo, e non dico di no, ma Cristo! almeno ai nostri possiamo scrivere!» «A che vale saper scrivere i nomi in Italia - commentò Siro- se la lettera non te la legge nessuno». «Ma almeno va all’indirizzo giusto, alla persona giusta!» «...e direttamente nel cestino», concluse Siro con un’intonazione monellesca. Di nuovo Domenico lo guardò brutto-brutto. «Non sto a difendere gli inglesi... ma loro il senso della giustizia ce l’hanno» s’affrettò a dire Siro. «Ma va affanculo! Che cazzo di giustizia è questa se nessuno ti sente!». Ma Domenico dovette subito ricredersi. Qualcuno li stava ascoltando fin troppo attentamente. E, avvertendo una presenza, si voltarono. Il Manager stava dietro di loro. «Guarda un po’, questo ha fatto l’abitudine di sorprenderci» borbottò Siro. E, soltanto in quel momento, i due amici si accorsero che nell’affanno e nella furia di recuperare i giornali avevano sparso sporcizia dappertutto. Il Manager sorrise compiaciuto, come per dire «adesso siete veramente fregati». «Credevo che vi pagavamo pulire e non per sporcare... ma mi ero sbagliato». Siro di nascosto trattenne Domenico dall’avventarsi sul Manager. Quell’ironia crudele lo faceva diventare una bestia. «Questo è vandalismo» - continuò Mister Linchfield - che, aggiunto al giocare a carte e al danno agli armadietti, rende il tutto non più tollerabile. Domani, siete avvisati, non presentatevi più. Qualsiasi ammontare ancora dovuto vi sarà mandato per posta» «Jesus» pensò Siro. Questo era licenziamento sul posto. E lui che aveva progettato di andare con la sua irlandese a farsi un di vacanza in Irlanda.. E aveva bisogno di più soldi che poteva. Così, quando Domenico cominciò ad abbaiare verso il Manager «Chi cazzo ti credi di...», gli tappò la bocca e lo spinse dietro di sé. «Mi dispiace, ma adesso il servizio domestico è privatizzato. Non avete più il sindacato che vi protegge. Io ho l’ordine di licenziare sul posto e ridurre i costi. Veramente vi dovevo licenziare da questa mattina». «Look sir, la preghiamo di perdonarci. Puliremo tutto com’era», assicurò Siro. Ma il Manager era adesso attratto dai ritagli di giornali. E notò il nome del direttore sottolineato dovunque appariva. E rivolgendosi nuovamente a loro disse «Cos’è? Kidnapping? Mafia». Siro s’affrettò a scusarsi «No, guarda, excuse me Mister Linchfield, mica pensa, dice sul serio?...» «Per quale motivo siete a Londra?», intimò nervosamente Mister Linchfield. «Motivo? Per lavoro, che altro motivo possiamo avere. Sarete nuovo ma non avete visto che io lavoro qui da quindici anni e Domenico da ventidue?» «Vedi, io non credo che siate qui per lavoro...» disse risolutamente il Manager. «Che cazzo vuoi dire», gridò Domenico. Il Manager li guardava mentre indietreggiava lentamente. Adesso aveva veramente paura perché tremava visibilmente. E improvvisamente, si girò e si mise a correre via come un pazzo. «Christ!», esclamò Siro incapace di credere ai suoi occhi. Domenico si crepava dalle risate. «Ah! Ah! Ah!... Quello... hai sentito! Kidnapping! Mafia! Ah! Ah! Quello veramente crede che noi... Ah! Ah! Ah! Hai visto come correva! Che fregnone!» Ma Siro era più che preoccupato: «Ma guarda che io a carte giocavo solo farti compagnia... Alla fin fine se non vogliono farci giocare non giochiamo...» «Nel tea-break facciamo quello che ci piace! È un diritto». «Ma a me non me ne frega! Io qui venivo per lavorare e portami a casa la settimana! Se non si gioca a scopa non è che ti ammazzano la madre! No? E tu fai tanto trambusto! Addirittura devi andare a scrivere al direttore!» «Oh, ma che cazzo dici, Siro! Guarda che è una questione di giustizia! Di diritti umani». «Ma chi se ne frega! Adesso mi hai fatto perdere il posto! Che faccio adesso? Il lavapiatti nel West End? Dove non ti danno neppure la paga minima!... Lì sì che ti fanno cacare duro! Altro che diritti umani!... Qui era una pacchia in confronto!» «Ma giocare a carte è sempre stato...» «Ma non me ne frega! Domenico! Le carte non le voglio vedere più! E neanche te!...» «Ma Siro! Guarda che qui lo scemo sei tu! Quello ci ha accusato di kidnapping e mafia, solo perché siamo italiani!» «Non me ne frega! Io volevo lavorare e basta! Io sto cercando di mettere su una famiglia, Okay!» «Okay! Okay! Ma io al direttore gli scrivo lo stesso! Gli scrivo da solo! E vedrai la giustizia!» «Fuck off, Domenico!» «Va affanculo tu!, Siro» E minacciandosi a vicenda e bestemmiando Domenico e Siro quella sera si separarono. Non si videro mai più. Dopo il licenziamento Siro se ne andò nell’Irlanda del Nord a vivere con la sua ragazza. Domenico non trovò più lavoro e, dopo ventitré anni all’estero, se ne tornò al suo paese in Italia. Adesso gioca a carte nel bar.