Ma il plexiglass sa cos'è il turismo?
Antonio Preiti Economista, Sociometrica, Censis
L’
epidemia ha colpito nel profondo la psiche collettiva. Abbiamo scoperto che, sotto certe condizioni, stare vicino a una persona può essere un pericolo; che più si è vicini e più è pericoloso; che il nemico è l’altro, l’altro di cui non sappiamo nulla, che diventa pericoloso proprio per la sua invisibilità. Non abbiamo modo di capirlo quando e quanto ci sia nemico. Ci appare nemico chiunque, perché non esiste nessuno che non sia un pericolo. Il concetto di asintomatico ha ferito la psiche più del virus.
L’epidemia ha colpito perciò la psiche collettiva, non la cultura collettiva (oltre che il corpo delle singole persone contagiate). Questo è un punto fondamentale da capire, per chi vuole fare comunicazione nel turismo (e in ogni settore) nell’era del post-virus.
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Sembra, invece, che dobbiamo tutti cambiare la nostra cultura, il nostro modo di vivere, quasi che lo tsunami fosse appunto culturale. È tutto un fiorire di “
new normal” pieni di alambicchi, di
plexiglass, di distanze sociali, ma il mondo dell’ospitalità è la vicinanza sociale, non la distanza sociale: con la distanza sociale non c’è il turismo, perché vive della curiosità degli altri, dell’interesse verso “l’altro”, dell’
appeal dell’altro da sé.
È ovvio che “le condizioni igienico-sanitarie” (come si dice, usando un’espressione che allontana chiunque dall’idea di viaggio) dovranno essere migliorate e alcune consuetudini, non più prudenti, devono essere corrette, ma nessuno è mai stato attratto dalla sanità, se non per ragioni appunto sanitarie. Non c’è neppure una sola gioia che il termine sanitario possa evocare. Il mondo del turismo è il mondo del desiderio, della gratificazione, dell’appagamento. Per chi ha qualche dimestichezza con Maslow e la sua “piramide”, sa che il turismo appartiene al mondo dell’auto-realizzazione personale (
self-esteem), non ad altro. Se quella non c’è, non c’è il viaggio, semplicemente.
Addirittura c’è chi pensa di promuovere la destinazione turistica sottolineando le misure igienico-sanitarie, come se fossero rassicuranti: quella è la condizione, non la motivazione. Bisogna essere molto attenti a non scambiare i due termini. Si viaggia ancora se e soltanto; se e perché si è attratti da una destinazione (almeno nel campo del
leisure), non per altre ragioni.
Ovviamente, ci si aspetta che la destinazione sia a posto e, nella contingenza di oggi, che tutte le misure di cautela sanitaria siano adeguate e rispettate. Questa condizione è da considerare, allo stato dell’arte, scontata, un’ovvietà, un punto indiscutibile, ma non è la ragione del viaggio. Anzi, più si “stressa” l’aspetto sanitario, più ci si allontana dal cuore e dalle ragioni del viaggio, perché rievoca il pericolo del viaggio, non il fascino del viaggio.
È con la dimensione psichica, non con quella culturale, che dobbiamo perciò fare i conti. Come dobbiamo rispondere allo shock psichico? Semplice: mettiamo al centro la “cura” delle persone. Non c’è un termine che in queste settimane sia più usato di questo. Cura è però anche il termine che domina l’industria dell’ospitalità. Ospitare le persone è un prendersi cura di loro: offrire la furtiva complicità costruita sull’empatia; assecondare i desideri senza mostrarsene esecutori, semmai creatori di quel che permette a quei desideri di realizzarsi; servire le persone, non nel senso della servitù, ma in quello del creare un rito, l’adempiere a un rito. E l’ospitalità è un rito. Chi andrebbe mai in un ristorante se non potesse mettere in scena una qualche ritualità? Intima quanto si vuole, personale quanto si vuole, purtuttavia un rito, altro che
plexiglass.
La comunicazione dovrà mettere al centro la persona (dovrebbe farlo sempre…) non la storia della destinazione, i paesaggi, il suo patrimonio artistico. Quelli ci sono, ci sono sempre stati e sempre ci saranno: non sono ignoti a nessuno. Ma oggi al centro devono esserci le persone: siamo qui per offrirvi attenzione; per prenderci cura di voi; per alleggerire le paure e coccolarvi. Magari anche (ri)darvi la gioia degli altri, che gli altri possono darvi, come sempre hanno fatto. Abbiamo capito cosa passa per la tua mente; abbiamo capito quello di cui hai bisogno; abbiamo capito quello che ti aspetti: siamo qui per questo. Ecco il meta-messaggio per colpire al centro il cuore e le menti delle persone.
Il desiderio turistico “è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni”: è l’attesa di qualcosa che ci manca e che speriamo di trovare; di un tempo sospeso di cui abbiamo bisogno; di un’esperienza che ci porti oltre la vita ordinaria. Se dobbiamo restare nell’ordinario, meglio non partire. È su questa linea sottile, intrigante, evocativa che deve poggiare la comunicazione post-virus, non sul livello di sanificazione delle strutture (che tuttavia è necessario garantire).
Cosa resterà dello shock psicologico di massa quando il virus sarà un ricordo? Perché finché c’è, comanda lui. È una vicenda che viviamo per la prima volta, perciò non abbiamo un
track record da citare. Abbiamo avuto un trauma collettivo, non il cambio di un paradigma culturale, e perciò non sappiamo con esattezza quali saranno gli esiti. Cosa sarà? Non vogliamo più viaggiare o non vediamo l’ora di far esplodere la nostra voglia di viaggiare, costipata e contratta in questi mesi?
Davvero è difficile rispondere. L’unico tracciato che abbiamo a disposizione per qualche paragone è quello del terrorismo. Cos’è rimasto dello shock terroristico? Poco o quasi niente, per fortuna. L’industria aerea dopo l’11 settembre è cresciuta come mai nella sua storia. Adesso abbiamo solo il fastidio delle bottigliette che dobbiamo buttare prima dell’imbarco, ma il resto delle misure di sicurezza sono state assorbite, senza attrito, nelle procedure: non è rimasto niente che metta paura.
Cosa resterà del coronavirus nel turismo? Resterà l’idea (più delle norme) che i “formicai” non vanno bene, perciò posti come Formentera, Ibiza, insomma i posti con maggiore intensità umana indistinta, confusa e tattile saranno meno di moda. Forse. Forse.
Avranno più pregio (questo è più certo) le destinazioni, gli alberghi, i ristoranti dove la cura della persona sarà maggiore e non perché ci sarà maggiore distanza sociale, ma perché prendersi cura della persona significa allontanare l’idea di indistinzione, confusione, anomia. Significa non avere la sensazione di stare nella terra di nessuno, soli, circondati da nemici invisibili. Dove c’è attenzione personale, ci si sente sicuri. La sicurezza dipende dall’attenzione. Sentirsi sicuri significa sentire l’attenzione di qualcuno: tutto il resto è incluso, assorbito e consumato dentro questa attitudine.
Serve usare l’empatia. Quel che si può dire è che di tutti i settori dell’economia, il turismo è quello che coinvolge di più le persone in maniera diretta e totale: è “umano, troppo umano”, per dimenticarsene. Siamo ospiti con tutto noi stessi. Negli altri ambiti si può distinguere tra consumatore e oggetto consumato. Nel turismo siamo noi l’oggetto e il soggetto allo stesso tempo. E noi siamo relazione con gli altri.
Quel che serve capire fino in fondo è che ospitare, sin dalle origini del mondo, è il più grande atto di fiducia sociale (e di riconoscimento personale) che si conosca. È ancora così. Nell’era post-virus lo è ancora di più.
huffingtonpost.it