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Le vie del vino

Storia del vino
Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana e, sui bassorilievi assiri con scene di banchetto, sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme.

Anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “ uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (Salmi).

Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dioniso, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini, tanto che Dioniso, il dio del vino, fu oggetto di culto non solo presso i Greci, ma anche in Etruria, dove era identificato con la divinità agreste Fufluns, e quindi nel mondo romano, dove era conosciuto come Bacco e ricollegato a Liber, antica divinità latina della fertilità.

Secondo la versione più diffusa del mito, Dioniso era nato dall’unione di Zeus con Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Zeus per avvicinare la donna, che era mortale, le aveva nascosto il suo vero aspetto, ma Semele, istigata dalla gelosa Era, gli chiese di poterlo ammirare nella sua forma di dio del cielo, ed essendogli Zeus comparso con la folgore, restò incenerita. Zeus allora salvò dal suo corpo il piccolo Dioniso e lo cucì nella propria coscia per portarne a compimento la gestazione; quando il bimbo nacque, lo affidò alle ninfe del monte Nisa affinché lo allevassero. Cresciuto nella solitudine dei boschi, educato da Sileno, Dioniso piantò la vite, inebriandosi dell’ “umòr che da essa cola” e il suo destino fu di peregrinare di luogo in luogo accompagnato da animali feroci, pantere o tigri, e seguito da un numeroso corteggio di menadi, satiri e sileni.

I temi connessi al vino sono i protagonisti assoluti della pittura vascolare greca, ed in particolare ebbero grande diffusione le raffigurazioni di Dioniso e del thiatos dionisiaco, oltre, naturalmente, alle scene di simposio.

Fonte: beniculturali.it

La pratica della viticoltura vanta origini antichissime, come è testimoniato da non pochi documenti figurati; fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVII dinastia (15552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, circostanza interessante da cui si deduce che in Egitto, gia nel II millennio, era diffuso il sistema di coltivazione ‘a pergola’. Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino.

Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo, ed in particolare in Italia: bianchi, rossi, secchi, abboccati, leggeri e pesanti a bassa e ad alta gradazione alcolica.

La qualità del vino dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto. Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille: “…una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna;…in canestri intrecciati portavano il dolce frutto”(Hom. Il.XVIII, 561-569).

Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo.

L’uva veniva di solito tutta raccolta per la vinificazione, ma poteva anche accadere che una parte del prodotto fosse messo in vendita ancora sulla pianta. A differenza degli lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino. E’ per questo che, almeno nel mondo greco, la maggior parte delle raffigurazioni relative alla produzione del vino, ed in particolare alla vendemmia, hanno come protagonisti Dioniso ed il suo seguito di satiri e menadi, che sono spesso rappresentati mentre riempiono i canestri di grappoli d’uva o nelle altre fasi del trattamento dell’uva.

Maggiori notizie si hanno per il mondo romano: l’uva veniva raccolta in una vasca (lacus vinaria) dove si procedeva alla pigiatura, quindi, una volta colmata questa vasca, si aspettava che il mosto si separasse dalle vinacce e, mentre quest’ultime, quando affioravano, venivano torchiate, il mosto passava in una vasca sottostante. In questo secondo lacus, dove poi confluiva anche il mosto delle vinacce torchiate, aveva luogo la fermentazione cosiddetta tumultuosa. Dopo sette o otto giorni si travasava il mosto in grossi doli interrati dove si completava il processo di fermentazione.

Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai doli (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium), dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Comunissimo era l’uso di esporre le anfore al calore e al fumo in appositi locali (apotheca e fumarium) oppure quello di aggiungere al vino acqua di mare o comunque salata, secondo un uso gia diffuso in Grecia dove si pensava che l’acqua di mare rendesse il vino più dolce e servisse ad evitare “il mal di testa del giorno dopo”. A seconda delle diverse stagioni il vino poteva essere raffreddato con la neve o scaldato; diffusissimo era inoltre l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano.

In molte raffigurazioni sono inoltre rappresentati servi che filtrano il vino in appositi utensili (cola): gli antichi, infatti, per difetto di tecnica, non arrivano mai a produrre vino perfettamente limpido, perciò il verbo liquare (filtrare) è talvolta usato dai poeti come sinonimo di mescere. Le anfore destinate alla vendita venivano tappare con sugheri e sigillate con pece, argilla o gesso e trovavano collocazione entro le celle vinarie. Un’iscrizione a pennello sul corpo dell’anfora o un’etichetta (pittacium) ricordavano l’origine del contenuto, mentre per indicare la data, si scriveva il nome dei consoli in carica quell’anno.

In Etruria, dove la coltura della vite aveva fatto la sua apparizione nella prima metà del VII sec. a.C., già nel corso del VI la distribuzione di anfore vinarie nel Lazio, in Campania e nella Sicilia orientale, in Sardegna e in Corsica e, a nord, sulle coste meridionali della Francia e della Spagna, è indice non solo del volume dei traffici intrapresi, ma anche dell’intensità di una produzione ormai ben avviata. L’Etruria, evidentemente, è stata capace di organizzarsi in breve tempo sul piano commerciale per smerciare al meglio il prodotto vinicolo in eccedenza. Almeno nella fase iniziale, il fondamento di questo commercio sembra sia stato sostanzialmente lo scambio di generi di necessità e/o di prestigio, come il vino, contro metallo o prodotti semilavorati.

Le anfore, recipienti solidi o affusolati, idonei ad essere accatastati razionalmente sulle navi, sono sempre state considerati i contenitori da trasporto per eccellenza.

Nell’antichità in genere è il traffico marittimo ad avere il massimo sviluppo e ciò è da ritenersi naturale ove si considerino la lentezza e le enormi difficoltà del trasporto terrestre. Per quanto riguarda quest’ultimo, avveniva su carri trainati da buoi o muli dove le anfore trovavano posto, impilate, e quindi coperte con teloni assicurati ai bordi dei carri con funi e corregge.

Sia nei conviti greci che quelli romani il vino si beveva mescolato con acqua, molto probabilmente a causa della sua altissima gradazione alcolica dovuta alla vendemmia tardiva. Le proporzioni della mescolanza erano stabilite di volta in volta da uno dei convitati eletto dagli altri commensali alla carica di simposiarca, come lo definivano i Greci, o di magister bibendi o rex convivii, come lo chiamavano i Latini, il quale fissava anche il numero e le modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, giudicata pericolosa, erano quelle chiamate “a cinque e tre”. La proporzione a cinque era formata da tre quarti d’acqua e due di vino; quella a tre, invece, da due parti d’acqua per una di vino.

A Roma si usava fare brindisi bevendo alla salute, o di uno degli astanti, il quale doveva vuotare la tazza esclamando: bene tibi, vivas, oppure di persone assenti. Nel brindisi alla donna amata era uso vuotare tanti kyathoi uno dietro l’altro quante erano le lettere che componevano il nome di lei (nomen bibere). Così Marziale: “Sette calici a Giustina, a Levina sei ne bevi, quattro a Lida, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o Sonno, vieni a me”.

Nel mondo romano esistevano anche le tabernae. Si trattava di locali assimilabili alle nostre osterie, vere e proprie mescite dove si vendeva vino al dettaglio. Erano costituite da uno o più ambienti, di cui quello all’aperto sulla strada fornito di un grande bancone in muratura, sul quale si trovava quasi sempre un piccolo fornello per scaldare l’acqua d’inverno ed erano poggiati contenitori e vasi potori di vario tipo. Nel bancone erano inoltre murati alcuni grandi orci per contenere il vino da vendere.

Il loro numero indica quanti tipi di vino si potessero trovare in quella data taverna.

L’arredamento delle tabernae era essenziale: tavoli e sedie, sgabelli e panche di legno, e banconi in muratura. Qualche volta, nei locali migliori, le pareti erano abbellite da decorazioni a festoni o da drappi e ghirlande, se non addirittura affreschi che illustravano tipiche scene da osteria.

I proprietari, o gestori delle tabernae, godevano di solito di una pessima fama: appartenevano sempre ad una classe sociale di infimo rango, spesso erano schiavi affrancati o comunque di origine servile, molti dei quali provenienti dalla Grecia o dall’Oriente.

Il cibo era a buon mercato e il vino costava ancora meno: quello servito normalmente era mescolato con acqua calda o fredda, a seconda delle stagioni, a volte “condito” con miele e spezie. Talvolta si servivano anche vini pregiati, più cari, ma più buoni dei vini “della casa”.

Plinio parla, solo per Roma, di ben ottanta qualità di vino! Il più apprezzato era il Falerno, ma Orazio canta anche il Caleno e il Cecubo, prodotto presso Fondi, e Marziale l’Albano.

Insieme al vino venivano servite focacce dolci, uova e formaggi, frutta fresca, verdure e ceci. Le locande più pretenziose potevano avere specialità quali cacciagione o pesce, funghi o tartufi.

Tra i numerosi locali che servivano il vino nelle città dell’impero romano erano le popinae, vere e proprie trattorie, dove si bevevo consumando i pasti, al tavolo e le cauponae, che erano un po’ come le nostre osterie di campagna poste sulle strade, spesso provviste di stalle per i cavalli e frequentate con una sorta di stazioni di sosta dai viaggiatori.

G. Carlotta Cianferoni
Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana
 
Storia del vino
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Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai doli (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium), dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Comunissimo era l’uso di esporre le anfore al calore e al fumo in appositi locali (apotheca e fumarium) oppure quello di aggiungere al vino acqua di mare o comunque salata, secondo un uso gia diffuso in Grecia dove si pensava che l’acqua di mare rendesse il vino più dolce e servisse ad evitare “il mal di testa del giorno dopo”. A seconda delle diverse stagioni il vino poteva essere raffreddato con la neve o scaldato; diffusissimo era inoltre l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano.....

Oltre che con l'acqua (in proporzione di 1:2, una parte di vino e due di acqua) veniva messo a macerare con frutta, miele e, talvolta, con formaggio grattato in maniera grossolana.
Era una bevanda molto energetica, ma di gusto discutibile...
 
Manchi tu, @liside. Manda un tuo contributo. O già ci sei tra i personaggi citati? ;)

No Martino, io faccio solo da cassa di risonanza...:)
Comunque ti invito a "bere" una stilla di saggezza:
“Ogni tanto è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza”
Seneca
 
Dimenticare in fretta l’amaro calice
Le ripercussioni dell'emergenza coronavirus, dopo le difficoltà provocate sia dalla politica di Donald Trump sui dazi sia dalla Brexit. È una concomitanza di fattori che può trasformare il 2020 nell’annus horribilis del vino Made in Italy. Le nostre aziende fanno i conti con la crisi e cercano di prefigurare gli scenari futuri. Partendo dal mercato cinese, che inizia a dare segnali di ripresa
di Fernanda Roggero

https://www.ilsole24ore.com/art/dimenticare-fretta-l-amaro-calice-ADWBVzI
 
Unicuique suum...
Puglia contro Sicilia: sfida aperta sul vino Primitivo
La Puglia si scaglia contro la Sicilia, che ha autorizzato la produzione del vino Primitivo sul suo territorio: duro attacco del Consorzio di Tutela

La Puglia si scontra con la Sicilia, regione che ha autorizzato l’impianto e la produzione di vino Primitivo sul suo territorio.
Con un lungo comunicato, il Consorzio di Tutela Primitivo di Manduria dop e docg ha criticato la decisione della Giunta Regionale della Sicilia che ha dato il via libera alla coltivazione del vino sull’isola.

“Per noi questo provvedimento è inammissibile. Tale decisione offende la nostra storia – si legge sul comunicato del Consorzio – Il Primitivo è un vitigno pugliese, espressione coerente del nostro territorio e delle nostre tradizioni vitivinicole. Inoltre, la sua affermazione commerciale che lo pone come prodotto traino dell’economia vinicola, agroalimentare e enoturistica regionale, è il risultato di decenni di sforzi e investimenti, sacrifici dei viticultori. E non possiamo tollerare che tale patrimonio sia sottratto”.

“L’autorizzazione all’impianto e alla produzione di primitivo in Sicilia è da considerarsi un abuso”: un messaggio chiaro, espresso congiuntamente dal Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria doc e docg, il Consorzio del Salice Salentino doc, il Consorzio dei Vini di Gioia del Colle doc, il Consorzio di Brindisi e Squinzano doc, il Consorzio dei vini doc e docg Castel del Monte, l’Associazione Nazionale Le Donne del Vino delegazione Puglia, il Consorzio Movimento Turismo del Vino Puglia, Assoenologi Puglia Basilicata e Calabria, Cia- Agricoltori Italiani Puglia e la Confagricoltura Puglia.

Secondo il Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria doc e docg, la decisione della Giunta Regionale della Regione Sicilia, la quale autorizza la coltivazione della varietà Primitivo sull’intero territorio regionale, crea un pericoloso precedente amministrativo.

Il Primitivo è un vino della Puglia che si presenta alla vista con un colore rosso-violaceo tendente all’arancione con l’invecchiamento. Questa varietà di vino si caratterizza per un aroma leggero e caratteristico e un sapore che riesce a essere asciutto, pieno e armonico al tempo stesso.

La sua produzione è suddivisa in tre varianti di vini: Primitivo di Manduria Dop, Primitivo di Manduria Dolce Naturale Docg e Primitivo di Manduria Dop Riserva. Il Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria è nato nel 1998 e ha ottenuto dal Ministro delle Politiche Agricole e Forestali l’attribuzione in via esclusiva dell’incarico di coordinare le funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, vigilanza, informazione del consumatore e cura generale degli interessi del Primitivo.

https://initalia.virgilio.it/vino-primitivo-puglia-contro-sicilia-36859?ref=virgilio
 
Chiude a Imperia il Libero Wine Café, il titolare Mirco Schiavinato: «Realizzo un sogno, vado in Thailandia» foto
Una delle tante attività che non riaprirà anche se il gestore covava da tempo l'idea di lasciare l'Italia

di Diego David - 05 maggio 2020

Imperia. Uno dei risvolti dei coronavirus è la crisi economica di chi ha sofferto e sta soffrendo di più per il lockdown, in particolare bar ed esercizi pubblici che anche ora che possono riaprire si devono limitare a porgere il caffè ai clienti e a fornire vivande da asporto. Affittii e scadenze sono sempre dietro l’angolo e molte saracinesche non si rialzeranno. Tra quelle che non si rialzeranno più c’è quella del Libero Wine Café di Imperia, in via Saffi a Porto Maurizio.

«Colgo la palla al balzo – dice Mirco Schiavinato il titolare – mollo tutto e realizzo il mio sogno quello di andare a vivere in Thailandia, una terra che amo».

Schiavinato lo preannunciava da tempo ai suoi clienti e ora il suo sogno si realizza, anche se non vuole ricollegare direttamente la decisione alla crisi economica post pandemia. «Cosa farò in Thailandia ? Porterò le mie capacità in quel Paese. Naturalmente dovranno maturare le condizioni anche pratiche per poter partire. Darmi un termine ora non è neanche possibile. Diciamo che il panettone non lo mangerò in Italia». Ma c’è in Thailandia? «Non lo so – risponde Mircose non c’è lo farò io».


Il Libero Wine Café punto di riferimento per molti imperiesi soprattutto all’ora dell’aperitivo serale si contraddistingueva per la calda ospitalità, la scelta dei vini, la qualità delle materie prime utilizzate e per le ricette spesso creative realizzate dal suo gestore.

https://www.riviera24.it/2020/05/ch...-realizzo-un-sogno-vado-in-thailandia-623796/
 
Viva la mezza bottiglia!
Era ora.
Personalmente, checchè se ne possa pensare, la via ultima di ogni bottiglia di vino da me acquistata è quella dell'acquaio: per circa la metà (300-350 cl.) è preda della fogna.
Mi spiego: il gesto di versare nel lavello, regolarmente, quasi mezza bottiglia di succo d'uva è per me drammatico ed eroico allo stesso tempo, però, essendo un bevitore modesto, la bottiglia aperta mi durerebbe 3 o 4 giorni. Considerando che al secondo o terzo giorno dall'apertura il gusto cambia in peggio, ecco spiegata la via del lavandino.
Una bottiglia di capacità inferiore mi leverebbe enormemente da lacerazioni sentimentali ed economiche.
Leggete qui:
https://video.repubblica.it/dossier...60765?ref=RHPPTP-BS-I253430426-C12-P5-S2.4-T1
 
Prendo spunto dal caffè da "asporto" sorbito da Martino:
"Comunque ieri ho bevuto il mio primo caffè (da asporto) al bar (fuori dal bar). La solita ciofeca che faceva quel bar prima della pandemia (infatti non ci andavo mai). Ma ieri era il caffè più buono del mondo. "
https://www.formazioneturismo.com/f...succede-anche-questo.65894/page-16#post-71118
per ribadire (repetita juvant) la pericolosità della plastica, specie di questi tempi, specie per i vini (passi il caffè...).
Mi spingo addirittura a suggerire l'astinenza piuttosto che bere vino da un bicchiere siffatto.
Non sono il solo
https://rep.repubblica.it/pwa/local...145/?ref=RHPPTP-BH-I256664753-C12-P12-S5.4-T1

Vade Retro, Plastica! Quali Bicchieri Usare Per Il Vino?
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Non diteci che ci avete pensato anche solo per un momento. Il bicchiere di plastica non ha nulla a che vedere con il vino. Non lo vorremmo vedere neanche in quelle feste in cui la qualità del vino scelto non è proprio di primissimo ordine. No, niente plastica! Questo perché, e non ci stancheremo mai di dirlo, il vino non va semplicemente bevuto. È da assaporare, da gustare, da sentire. Quel bicchiere di plastica non può essere riempito e svuotato come se si stesse bevendo una bibita gassata. C’è bisogno di cura, di rispetto.
La degustazione del vino parte proprio dalla scelta del bicchiere. Sarà infatti il giusto calice a consentirvi di apprezzare nel modo migliore tutte le caratteristiche del vino in questione. Il bicchiere di plastica invece è quanto di più lontano ci possa essere nell’apprezzamento di un vino. Provate a dirlo, anche per scherzo, ad un sommelier o ad un enologo. Rischiate di farlo rimanere secco! Scherzi a parte, non provateci neanche a dirlo, questa cosa ha un sapore quasi blasfemo.
Perché no al bicchiere di plastica? La risposta è molto semplice: cominciamo dal fattore più importante, cioè il suo antipatico ruolo di inibitore dei profumi e dei sapori del vino. Li altera, non si possono percepire pienamente. Prima ancora di arrivare al sapore però, a soffrirne sono i colori. La plastica non permette di godere di tutte le sfumature e i riflessi del vino, che sono sempre una parte importante dell’esperienza gustativa. Quello che viene meno è proprio la poesia…
Badate bene! Non siamo qui a fare una crociata nei confronti della plastica (non è il luogo né l’argomento di discussione di questo post), ci sono anche altri bicchieri da evitare e sono tutti quelli che non consentono la giusta esperienza di degustazione. Ricordiamo che quando parliamo di degustazione non ci riferiamo agli esperti del settore, che sanno, e molto bene, come si fa. Ci riferiamo a chi ha la passione per il vino e vuole approcciarsi a lui nel migliore dei modi possibili.
Quali altri bicchieri evitare nella degustazione di un vino? Sicuramente quelli colorati, quelli con decorazioni varie, ed è facile capirne il motivo: sempre per poter apprezzare i riflessi e i colori originali del vino. Perché il primo step nella degustazione è l’osservazione, non dimenticatelo.
Da evitare anche i bicchieri d’argento o altri materiali metallici, perché intaccano il sapore del vino. Quindi quali bicchieri utilizzare per bere il vostro vino? I migliori sono i calici di cristallo, da scegliere in base al tipo di vino che ci si prepara a bere. Calici di cristallo sottile o comunque di vetro il più leggero possibile, dotati di stelo. Perché? Per evitare che, ad esempio, un vino freddo possa riscaldarsi se il bicchiere è tenuto nel palmo di una mano. Colori, odori e aromi sono assicurati!
https://www.cantineduepalme.it/it/b...a-quali-bicchieri-usare-per-il-vino--b36.html
 
I grandi vini italiani: il Morellino di Scansano
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Protagonista dei commerci degli antichi romani, quasi abbandonato nel Medioevo, poi rinato con "l'Estatatura" del Granduca Pietro Leopoldo di Lorena

https://www.repubblica.it/sapori/20...0054/?ref=RHPPBT-VP-I256701360-C6-P10-S1.6-T1
 
Va bene se si menziona anche la birra?:D

Belgio, la birra invenduta per il lockdown diventa distillato: così nasce 'Smells like Brussels spirit'
Quattro birrifici di Bruxelles, in Belgio, hanno unito i loro fusti invenduti di birra per creare un distillato. 'Smells like Brussels spirit' è un superalcolico da 37,5 gradi creato utilizzando anche il fiore dell'iris, un richiamo al simbolo della capitale belga.

A cura di Mario Di Ciommo

https://video.repubblica.it/mondo/b...64036?ref=RHPPTP-BS-I257387636-C12-P6-S3.3-T1
 
Il New York Times celebra il Verdicchio: tributo al vino italiano

Il Verdicchio viene elogiato dal New York Times che celebra le sue caratteristiche uniche definendolo come il più grande vino bianco di tutta Italia
Il New York Times rende omaggio al Verdicchio, definito sulle pagine del quotidiano statunitense.

Una vera e propria dichiarazione d’amore per uno dei vini iconici del centro Italia. A elogiare il frutto dei vitigni marchigiani è Eric Asimov, critico enogastronomico del New York Times che torna a parlare delle eccellenze italiane dopo aver selezionato i migliori vini estivi italiani sotto i 20 euro.

“Il Verdicchio è probabilmente il più grande vitigno autoctono bianco italiano” scrive sul NYT Asimov che lo esalta definendolo uno dei protagonisti della rinascita dei vini bianchi italiani negli ultimi venti anni. Sin dal 700 a. C., il Verdicchio è considerato uno dei più grandi tesori delle Marche, terra che vanta cantine all’avanguardia e vini eccellenti.

Il vino si presenta sapido, minerale, con una grande persistenza aromatica e olfattiva e con una straordinaria capacità di invecchiamento, qualità rare da trovare in un bianco del suo genere. Oltre alla denominazione principale Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc, non bisogna dimenticare la più piccola, ma altrettanto preziosa, denominazione del Verdicchio di Matelica Doc, nata nel 1967.

Quello di Jesi è un Verdicchio variegato e leggiadro, in virtù della sua vicinanza con il mare. Al contrario il Verdicchio di Matelica, espressione fiera di un territorio che si divide tra la montagna e il mare, è un vino ben strutturato a causa dei suoli più pesanti nella sua struttura geologica.

Il New York Times, che dopo aver consigliato i vini italiani da bere durante la quarantena invita i turisti a visitare l’Italia dopo la prima fase dell’emergenza Covid-19, cita tre etichette principali come banco di prova per approfondire la conoscenza di questo vino nell’articolo pubblicato dal critico enogastronomico Eric Asimov.

Si parte dal Verdicchio di Matelica Le Salse 2018 della Cantina Belisario, vinificato in purezza e presente sul mercato con cinque tipologie. Si prosegue con il Matelica 2018 di Bisci, vinificato in regime biologico con una raccolta a mano e pressatura soffice e si aggiunge poi il Verdicchio di Matelica 2019 dell’azienda Collestefano, riconosciuto come uno dei migliori della denominazione.

Il quotidiano statunitense, inoltre, consiglia anche il Verdicchio prodotto nelle cantine marchigiane La Staffa, Villa Bucci, Pievalta, Garofoli, Fontezoppa, Fattoria San Lorenzo, Velenosi e Umani Ronchi.

initalia.it
 
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Vino nel fiume: strage di pesci e animali ubriachi in Slovenia
Strage di pesci e animali ubriachi in Slovenia: "Colpa del vino nel fiume"
I pescatori della zona puntano il dito contro le numerose cantine presenti nella regione e che avrebbero riversato in acqua il contenuto delle botti rimaste invendute a causa del coronavirus

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Redazione Bruxelles
31 luglio 2020 12:35

Vino nel fiume: strage di pesci e animali ubriachi in Slovenia

Animali che si comportano come fossero ubriachi e diversi pesci morti. E' quanto hanno denunciato i pescatori di Gornja Radgona, centro agricolo della Slovenia che sorge lungo il fiume Mura, secondo quanto riporta la stampa locale. I pescatori non hanno dubbi sulle cause: a determinare lo strano fenomeno è il vino finito in acqua.

Le indagini sono in corso, ma a quanto pare non è la prima volta che si verifica una fatto del genere. La regioni interessata, infatti, è famosa per la produzione di vino. A quanto pare, le scarse vendite causate dal blocco del coronavirus hanno spinto i produttori locali a riversare nel fiume enormi quantità di vino rimasto invenduto. Le prime analisi sembrano confermare quanto denunciano i pescatori: nell'acqua del fiume sono state riscontrate elevate quantità di alcool e zolfo, sostanza quest'ultima utilizzata per ripulire le botti una volta svuotate.

Le organizzazioni di pescatori hanno cercato di far fronte al danno ambientale con misure volte ad aumentare l'ossigenazione del fiume. Ma i risultati finora sono stati scarsi: "Qui di solito ci sono tra i 5 e i 6 mg di ossigeno in un litro di acqua, i livelli attuali sono scesi a solo 1 mg", dice un pescatore. Il problema non riguarda solo i pesci: diversi allevamenti della zona usano il fiume per far abbeverare gli animali. Alcuni dei quali, si legge sul quotidiano Slovenske Novice, hanno manifestato i sintomi di una sbornia.
 
Sono di ritorno dalle mie terre natie.
Scusate, ma l'auspicio è che vengano ancora ignorate a lungo dal turismo di massa. Nonostante ci sia nato la Puglia ha esercitato o, meglio, imposto il suo fascino e ancora adesso che sono tornato in Toscana la sogno ad occhi aperti. E sono stato solo in Daunia e Gargano.
Non andateci.:D:D:D:D:D:D:p:p:p:p:p:p:p:p
Per quelli che credono che l'arte sia concentrata solo a Roma, Firenze, Venezia, Napoli consiglio di andare a ricredersi, per esempio, a Monte Sant'Angelo, uno dei tanti luoghi ignorati e dai Tour Operators e dal Ministero del Turismo (a proposito, qualcuno conosce chi ne sia a capo?).
Ho voglia di polemica naturalmente.:D:D
Il motivo di questo mio post "dalla parte del torto" è il vino. Anzi un vino.
Volendo fare scorta di quello buono in enoteca, olte al famoso Cacc'e Mitte lucerino (ivi soggiornando, sede dei miei studi liceali), chiedo qualche bottiglia di buon rosè.
Il rosè lucerino per antonomasia è "U' Ciuccarill": l'addetta non ha compreso, anzi, mi guardava stranita. Avendo esaurito la pazienza, visto anche il mio atteggiamento quasi minaccioso, l'addetta alla vendita finalmente, con grande sforzo intellettuale, mi chiede: Ho capito, forse lei intende "Il Cioccarello!. "Signorina, replico, qui non si parla di ciocche, infatti lei non è una parrucchiera, ma di ciocco. ovvero quel che resta di un albero dopo l'abbattimento, ovvero parte del tronco e le radici. Se in quel terreno gli alberi abbattuti sono tanti, tale da non consentire piantagione alcuna, allora viene trasformato in vigneto con vitigno autoctono. Il vino prodotto da questo vitigno (con le caratteristiche organolettiche della foto allegata) è sublime e, data la gradazione, piegherebbe le ginocchia ad un elefante".
La sventurata non aveva tutti i torti, data l'età giovane, ma vi assicuro che originariamente il vino descritto era denominato "U' Ciuccarill" e non "Il Cioccarello".
Per fortuna la qualità non è cambiata.
Vi allego foto ed un articolo della scorso anno.
https://www.cinellicolombini.it/vig...e-turismo-del-vino-super/attachment/p1100026/
 

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Il più antico vino certificato Doc al mondo è italiano

Record mondiale per il Barolo di Serralunga d'Alba del 1961, eletto il vino certificato Doc più antico del mondo dalla World Certification Limited

Record mondiale per un vino italiano: il Barolo Serralunga d’Alba del 1961 è stato eletto come il vino certificato Doc più antico in tutto il mondo. A decretarlo è stata l’agenzia internazionale della World Certification Limited.

Un grande riconoscimento per il Barolo prodotto a Serralunga d’Alba, in provincia di Cuneo, nel 1961: è in assoluto il vino più longevo a vantare la certificazione introdotta per la prima volta nel 1960 con l’obiettivo di prevenire la vinificazione contraffatta.

Il vino da record al momento è esposto e conservato all’interno del museo popolare ‘Robe Veje‘ di proprietà di Luigi Varrone nella città di Fontanelle Boves, Cuneo. Il titolo di vino doc più antico del mondo è stato rivendicato dal proprietario della bottiglia Maurizio Paschetta, già detentore di ben otto record mondiali a livello agricolo.

L’idea di esporre questa prestigiosa bottiglia è stata dello stesso Maurizio Paschetta: di sua volontà ha deciso di donarla a titolo gratuito e in modo definitivo a Luigi Varrone, suo grande amico. Il gesto, accompagnato anche da un atto di donazione per formalizzare il passaggio di proprietà, consente alla bottiglia di poter essere ammirata da tutti in uno dei musei agricoli più importanti d’Italia che espone attrezzi manuali d’epoca ancora tutti funzionanti.

Maurizio Paschetta è soprannominato ‘the recordman’. Da sempre appassionato di agricoltura, è entrato ben otto volte nel grande libro del Guinness dei Primati: l’ultimo record è quello di proprietario della bottiglia di vino doc più antica in circolazione in tutto il mondo, quella del Barolo di Serralunga d’Alba del 1961. Ciò lo ha reso l’uomo con il numero più alto numero di primati raggiunti nel settore agricolo.

Il Barolo Doc è prodotto a Serralunga d’Alba, borgo piemontese dove è presente il Bistrot di Guido, locale-laboratorio nella villa Reale della riserva bionaturale di Fontanafredda indicato come una delle 10 nuove migliori trattorie d’autore in Italia. Il vino molto particolare, sia per quanto riguarda i profumi che i sapori percepiti. Di colore rosso rubino brillante, è un vino con sentori di rosa appassita, di sottobosco, di prugna, di liquirizia e di spezie.

Il vino ha una componente acida fresca e giovanile e tannini che sostengono una buona struttura. I suoi aromi sono eleganti e molto intensi: il frutto risulta dolce con sensazioni più evolute che rimandano anche alle erbe essiccate. Solitamente viene messo a maturare per 24 mesi all’interno di botti tradizionali da 25 ettolitri dove, con il passare del tempo, si affina e acquista eleganza.

Dopo una sosta che può variare dai 6 ai 12 mesi, è pronto per essere servito alla temperatura di 16-18 gradi. Per la sua grande struttura, il Barolo di Serralunga d’Alba, comune che vanta anche il Dolcetto inserito nella lista dei migliori vini italiani da bere durante la quarantena secondo il New York Times, è ideale da abbinare a secondi piatti di carne rossa e brasati.

initalia.it
 
Giorgio Pinchiorri e le 2.250 bottiglie all’asta: «Ci pagherò le ferie dei miei dipendenti»
Alessandra Dal Monte






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Tutto è cominciato con una cena. All’«Enoteca Pinchiorri», naturalmente. Era il maggio 2019 quando l’amministratore delegato della casa d’aste americana specializzata in vino Zachys, Don Zacharia, ha proposto al patron del ristorante fiorentino tre stelle Michelin la vendita di alcune delle sue bottiglie più speciali. Il risultato è che il prossimo 12 settembre Zachys debutterà con la sua prima asta europea — a Londra — totalmente dedicata ai vini di Giorgio Pinchiorri: 2.250 bottiglie (divise in 864 lotti) italiane e francesi per un valore base di 2 milioni di euro. Sul podio delle più costose tre lotti d’Oltralpe: due magnum di Vosne-Romanée Cros-Parantoux Reserve Henri Jayer 1999 (base d’asta 60 mila sterline, circa 66 mila euro), due bottiglie di Romanée-Conti Domaine de la Romanée-Conti 1990 (da 24 mila sterline, cioè circa 26 mila euro), sei di Pétrus 1961 (da 30 mila sterline, circa 33 mila euro). Tutti grandi vini rossi, tra la Borgogna e Bordeaux.

Pinchiorri, ha una cantina monumentale, 60 mila bottiglie, acquistate in oltre 50 anni. Di aste non ne ha fatte tante. Come è nata questa?



«Non era la prima volta che Zachys ci contattava. E sì, finora di aste ne ho fatta una soltanto, anni fa, con Sotheby’s. Non eravamo stati molto contenti del risultato. Quella sera con Don però la trattativa non è stata lunga, io e lui siamo amici da tempo. Abbiamo deciso che le referenze sarebbero state circa duemila, e che l’asta sarebbe stata dedicata a noi. Doveva svolgersi a marzo, ma con il coronavirus è slittato tutto».
Ora la data si avvicina. I proventi capitano in un momento propizio, dato che il virus sta colpendo duramente i ristoranti. Vi aiuteranno a limitare i danni?
«Stiamo patendo come tutti, abbiamo patito e patiremo. Noi facevamo ogni giorno tra i sette e i dieci tavoli di clienti degli alberghi. Oggi a Firenze il turismo è fermo, tanti hotel non hanno nemmeno riaperto. Abbiamo scelto di tenere il ristorante attivo tre giorni a settimana, da giovedì a sabato. Devo dire che siamo comunque contenti, ringrazio i clienti che sono venuti subito a sostenerci. Certo, in questa situazione i proventi dell’asta aiuteranno. Ma sa come? Voglio fare una cosa per i miei dipendenti».
E cioè?
«Sono 51, molti lavorano con me da dieci, 15 anni. Hanno accumulato 30, 40, 50 giorni di ferie. Indipendentemente da come andrà l’asta, la prima cosa che farò sarà liquidare quegli arretrati nella busta paga di dicembre. E quel che avanza, se avanza, si userà per ristorante e cantina. Avevo già acquistato partite di vino molto importanti, alcune saldate altre da pagare. Questi soldi ci aiuteranno anche nel 2021, perché la crisi ci stangherà almeno per i primi sei mesi».
Ha temuto di ammalarsi?
«Sì. La settimana di Pasqua ho mangiato pane e formaggio perché non avevo voglia di andare in giro a fare acquisti. Ho perso amici, parenti, clienti per questo virus. Pensiamo anche solo al ristoratore che si è tolto la vita pochi giorni fa perché temeva di non riuscire a pagare i debiti del locale. Era un amico, gli dicevo “vengo a mangiare un’insalata e una bistecca” e lui me le faceva trovare. Le cose gravi sono queste. Quando mi preoccupo penso che sì, abbiamo patito, ma siamo vivi. I soldi prima o poi ricrescono, come le unghie».
Anche il 2019 è stato complicato. Una sua ex dipendente l’ha denunciata per stalking.
«Io sono tranquillo, quel caso è stato montato. Lo dimostrerò in tribunale se ci si arriverà».
È vero che imballando le bottiglie per quest’asta le ha baciate e ha pianto?
«Sì, per me sono figli che non ci saranno più. Ma faranno felici altri. E in cantina ne sono rimaste ancora di quei produttori. Per far felice anche chi viene».

https://cucina.corriere.it/notizie/...ti-b9227abe-e70d-11ea-9502-8f5d7befe48e.shtml
 
"La mia vigna ? Un patrimonio botanico": così a Borgotaro maturano le uve antiche
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La passione di Luigi Cresci per la viticoltura lo ha reso un custode della biodiversità. "Un tempo non c’era casa in appennino che non avesse una vigna, era quasi più importante dell’orto, ora sono una rarità"

di MAURO DELGROSSO

03 settembre 2020

Luigi Cresci, veterinario borgotarese in pensione, da sempre amante della vita in campagna e dell’agricoltura sostenibile. A Borgotaro è considerato un esperto, soprattutto in termini pratici, di viti, di vigne e ovviamente di vino nostrano.

Nella sua vigna si possono trovare specie rare: la Tamina, il Varano, la Mustarola, il Galuson, la Guastallese bianca e rossa, la Foglia Liscia, la Metica, il Trebbiano autoctono, il Moufrà (dolcetto).
Luigi, da quanto tempo sei coinvolto fra vigne di montagna e vinificazione domestica ?
"É una passione che mi accompagna da sempre. In questi ultimi dieci anni, complice la pensione e il tempo libero, sono riuscito a dedicarmici con un po’ più di metodo. Ma fin da giovane, mentre mi muovevo da un allevamento all’altro per lavoro, ho sempre raccolto consigli, notizie e soprattutto barbatelle da piantare e polloni da innestare. Mi sono ritrovato un piccolo patrimonio botanico, con tante piante diverse, per produrre vino e per la consumazione in tavola".

Tutti questi anni di studi, di ricerche sul campo, hanno portato alla creazione di una vigna molto particolare, soprattutto per la sua biodiversità. Per la scelta dei vitigni che la compongono e per la loro capacità all’adattamento in montagna. Si tratta di circa 300 piante che creano, nel loro insieme, un patrimonio botanico non comune.
"Si, è in effetti è così. Ho piante che arrivano anche da Francia, Germania e Ungheria. I vitigni che mi danno maggiori soddisfazioni in termini di resa, di resistenza, ma soprattutto di qualità del prodotto, sono il Muller Thurgau, il Pinot Bianco e lo Chardonnay. Il primo vitigno di Muller me lo regalò un anziano allevatore e i suoi nipoti, che ora gestiscono un agriturismo di successo, me lo ricordano sempre con simpatia: io non manco mai di fargli avere una assaggio dell’annata. In base alla mia esperienza personale, penso che per le nostre valli sia più facile dedicarsi ai vini bianchi e rosati, un po’ acidi, a maturazione precoce. I rossi, sempre per quel che ho potuto imparare, si rivelano parecchio impegnativi: l’estrema variabilità stagionale della Valtaro, che ci porta ad essere un’eccellenza in termini micologici, è invece un fattore molto complesso da gestire in ambito vitivinicolo".

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Parlando di vitigni autoctoni, non sembra essere rimasto granché, dopo il disastro della filossera e della peronospora, le piaghe che a fine del XIX secolo spazzarono via tutti i vigneti locali.
"Le coltivazioni locali sono sempre interessanti, ma forse più per gli aspetti legati alla storia, all’orgoglio della tradizione, che alla reale qualità produttiva. Un tempo non c’era casa in appennino che non avesse una vigna, era quasi più importante dell’orto, ora sono una rarità. Il vino, anche se non particolarmente buono, era un elemento essenziale della dieta di tutti i giorni. Qui, a 700 metri di altitudine, certe uve rosse della tradizione parmense non ce le possiamo permettere. Penso alla mia termarina, che insisto a tenere per affezione, ma che non arriva mai ad una maturazione piena. Le uve a bacche rosse danno parecchio filo da torcere: la stessa pianta, trecento metri più in basso, con un’altra esposizione, anche solo a pochi chilometri di distanza, ha una resa completamente diversa. Questa è la storia del nostro appennino, dove ogni piccola valle è un mondo a sé, dove non esistono regole di massima e occorrono esperienza pratica, pazienza, e dove bisogna dedicare massima attenzione alla fase di coltivazione, anche dopo il raccolto. Dopo ogni pioggia o temporale, occorre intervenire, anche semplicemente riducendo le foglie, per dare aria, per evitare il proliferare di funghi e di parassit. I trattamenti, anche quelli minimi in linea con i protocolli delle certificazioni biologiche, vanno fatti con grande puntualità e ripetuti abbastanza spesso; senza una cura costante e attenta, una vigna di montagna, che è costata fatiche per anni, muore in pochi mesi".

Un accenno alla vinificazione, anch’essa molto particolare.
"Seguo, insieme a tanti amici con cui condivido questa passione, la tradizione locale. É forse un po’ 'grezza', ma fondamentalmente genuina, tramandata con attenzione negli anni, sempre ottima a mio avviso per le piccole produzioni domestiche. Quindi i bianchi li metto in damigiana dopo solo due giorni dalla pigiatura di grappoli attentamente selezionati, dove completano la fermentazione e i rossi, dopo sette-otto giorni, in funzione degli zuccheri. Senza aggiungere correttivi, neanche dei semplici lieviti. Le vinacce si passano al torchio a mano, per fare il novello, leggero, da consumare entro il Natale. Ciò che si beve, che va in bottiglia, è solo quello che si è raccolto in vigna. Dei miei bianchi, completamente naturali, dopo decenni di prove posso dire di essere discretamente contento. Hanno un solo difetto: vista la mancanza di conservanti, vista la gradazione alcolica che di solito non supera i 12 gradi, vanno consumati tutti giovani. Ed essendo gradevoli, buoni e facili da bere in compagnia, una bottiglia tira l’altra e così, alla fine, difficilmente si riesce a trovare in cantina una bottiglia invecchiata".

https://parma.repubblica.it/cronaca...18481/?ref=RHPPLF-BH-I257369211-C8-P6-S9.4-T1
 
Conegliano Valdobbiadene
Al via la vendemmia eroica


Per le caratteristiche del territorio, contraddistinto da pendii molto ripidi, sono richieste tra le 600 e le 700 ore per ettaro (l’anno) di lavoro manuale. Si comincia da sud-est, con le vigne più esposte al sole .
Per la denominazione Conegliano Valdobbiadene è tempo di vendemmia. Dopo un anno dal clima mite, piuttosto secco e un’estate clemente che non ha sottoposto le piante a stress idrici e a ondate di calore, le indagini svolte in campo dai tecnici incaricati dal Consorzio promettono bene.

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La vendemmia eroica rappresenta il momento di massima ingegnosità dei viticoltori del territorio - Foto Beatrice Pilotto
Le operazioni di raccolta inizieranno dalla zona di sud est, sui versanti maggiormente esposti al sole, spostandosi poi nel corso del mese di settembre man mano verso nord ovest.
«La natura quest’anno ci dà speranza e nonostante l’annata difficilissima a livello mondiale, siamo qui come tutti gli anni ad apprestarci alla raccolta di uva che promette qualità - commenta Innocente Nardi, presidente del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg - Il lavoro in vigneto si è svolto in questi mesi in modo regolare, compatibilmente con le restrizioni e con le nuove norme emanate per la gestione dell’emergenza Covid 19. In un anno come questo l’impegno dei viticoltori è stato ancora più intenso per garantire la consueta cura dei vigneti e poi la qualità finale del prodotto. Nei primi otto mesi del 2020 le vendite del nostro prodotto hanno registrato un -3,8% che nel panorama generale si può definire un buon risultato, basti pensare al -40% del comparto della ristorazione. Le scelte del Consorzio per difendere il valore e il posizionamento del Conegliano Valdobbiadene hanno portato finora i risultati sperati, il valore dell’uva e quello del vino sono rimasti gli stessi dello scorso anno nonostante la speculazione dei mesi primaverili. La viticoltura eroica si difende costruendo ....

(continua su https://www.italiaatavola.net/vino/...-valdobbiadene-al-via-vendemmia-eroica/69459/)
 
“Italia ci manchi”, il Forbes elogia il vino italiano
Agli statunitensi manca l'Italia e il nostro vino di qualità: l'elogio del Forbes al Belpaese

30 Settembre 2020


Continuano gli elogi da parte delle testate giornalistiche straniere per l’Italia e tutto quel che la riguarda. Omaggi che sono stati fatti ai nostri borghi, ai meravigliosi laghi e ai cammini che attraversano il Belpaese. E oggi è il turno del vino nostrano che viene ampiamente celebrato dal Forbes, prestigiosa rivista statunitense.

Italia ci manchi“, titola così Cathy Huyghe il suo pezzo sul vino italiano. E lo fa perché in questo periodo di pandemia la giornalista ha chiesto a se stessa, ai suoi amici e ai suoi colleghi, quale fosse l’esperienza di cui avevano più nostalgia e che non vedevano l’ora di tornare a fare.

E nelle risposte ricevute non sono emersi dubbi: la destinazione di viaggio più bramata dagli statunitensi è assolutamente l’Italia. In particolare, le persone a cui lei ha rivolto la fatidica domanda, desideravano atterrare il prima possibile in mete come Sicilia, Siena e Sardegna.


Anche se poi, la stessa giornalista ha affermato che durante i discorsi affrontati sullo Stivale emergeva fuori un po’ di tutto, dal Vermentino ligure allo Chardonnay piemontese. In sostanza ogni riposta portava sempre alla stessa conclusione: “se è italiano è giusto”.

Sorpresa del suo stesso annuire di fronte a discorsi un po’ troppo ampi, Huyghe ha realizzato la cosa più importante: quello che stavano commentando – e di cui sorridevano – era il ricordo indelebile dell’Italia e dell’esperienza del bere vino proprio nel nostro Paese.

Quel modo di vivere che non vedono l’ora di poter sperimentare di nuovo, quella sensazione di italianità che più di qualsiasi bottiglia o città o cantina specifica, manca in assoluto di più agli statunitensi.

La giornalista, inoltre, ha sottolineato che chiaramente è possibile bere vino italiano e condividerlo con gli amici, senza essere fisicamente presenti in Italia, anche negli States. Tuttavia, non è questo che vogliono. Infatti, continua citando un suo amico che al riguardo ha affermato: “bere vino italiano durante il Covid-19 è come lo stile di canto di chiamata e risposta, tranne per il fatto che non c’è risposta alla chiamata“.

Ma la verità, conclude Cathy Huyghe, è che “per gli amanti del vino e gli appassionati di viaggi, quell’assenza di adrenalina e ispirazione data dalle partenze e che l’Italia sa offrire abilmente ai suoi visitatori, non rende le persone sé stesse o almeno non quelle che si era soliti riconoscere più spesso allo specchio.”

Insomma, viaggiare manca a tutti e agli statunitensi manca particolarmente l’Italia e il vino che produciamo. E noi, ovviamente, comprendiamo a 360° la loro nostalgia.


siviaggia.it
 

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